Idee Capitalismi

L’economia sociale trasforma sia lo Stato, sia il mercato

Oggi occorre un approccio all’attività economica che permetta di ricostruire legami sociali anziché dissolverli, che riattivi forme di partecipazione, che ridia vita allo spazio pubblico come responsabilità condivisa. Ed è qui che entra in gioco l’economia sociale come approccio orientato all’interesse generale. L'intervento del segretario generale di Euricse

di Gianluca Salvatori

Veniamo da una lunga fase – quella dei cosiddetti “Trenta Gloriosi” – in cui il primato era assegnato alla politica, con lo Stato che regolava i mercati in nome di una visione ispirata a principi di equità e coesione sociale. Era la stagione del compromesso keynesiano tra capitalismo e democrazia – nelle sue diverse versioni, orientate verso un modello di socialdemocrazia o di liberaldemocrazia – su cui si è sostenuto il periodo della ricostruzione, l’avvento di una classe media di massa, e la diffusione di un modello universalista di welfare pubblico. Poi, a partire dagli anni ’80, sotto l’effetto combinato del crollo del comunismo e della finanziarizzazione globalizzatrice ha preso piede una visione opposta: quella di un’economia libera, senza interferenze, capace di autoregolarsi. Questo spostamento ha ridotto lo spazio della politica e ha favorito un’idea di sviluppo guidata dalla competizione e dal profitto. Incoraggiata anche da una forma di forte individualismo sociale. Si è affermata quella che è stata chiamata la “generazione del sé”, in cui conta prima di tutto la realizzazione personale, a scapito dei legami collettivi. Con annessa disaffezione verso la partecipazione pubblica, crisi dei corpi intermedi e crescente distanza tra cittadini e istituzioni. Quella fase – anch’essa quasi trentennale – ha provocato nei Paesi occidentali una crescita della disuguaglianza e ha posto le premesse per quella polarizzazione della vita pubblica, i cui effetti sono esplosi in tempi recenti.

Tuttavia, la stagione che stiamo vivendo, dal punto di vista del rapporto tra poteri economici e poteri politici, non si pone in continuità con il modello neoliberale. Le crisi degli ultimi quindici anni ci hanno introdotto in una fase nuova, che ha riportato sulla scena l’autorità pubblica e dunque la politica. Dalla Grande Recessione alla pandemia da Covid-19, non i mercati o le imprese ma i poteri pubblici hanno consentito di trovare vie d’uscita. E la nuova divisione geopolitica del mondo non è che un’ulteriore conferma del ritorno degli Stati nazionali. È con questo ritorno che dobbiamo fare i conti, avendo però chiaro che si tratta del rientro sulla scena di un soggetto indebolito, che non appare sorretto né da un diffuso e radicato consenso sociale né da un chiaro pensiero su come ridefinire il rapporto tra economia, politica e società. Nell’attuale scenario i poteri pubblici non prospettano una visione aggiornata del compromesso tra democrazia e capitalismo, ma appaiono piuttosto sballottati tra pulsioni populiste, nostalgie dirigiste e tentativi disordinati di limitare la concentrazione di potere economico. In altre parole, siamo nel mezzo di una transizione in cui il modello “market first” ha mostrato i suoi limiti, ma senza che il ritorno alla centralità dello Stato rappresenti un’alternativa convincente.

Di fronte a questo quadro serve un approccio all’attività economica che permetta di ricostruire legami sociali anziché dissolverli, che riattivi forme di partecipazione, che ridia vita allo spazio pubblico come responsabilità condivisa. Ed è qui che entra in gioco l’economia sociale come approccio orientato all’interesse generale; capace di farsi luogo dove si esercita cittadinanza, si costruisce fiducia, si genera coesione; con un’idea originale per un nuovo equilibrio tra mercato, Stato e società civile, che tenga insieme impresa e democrazia, produzione e solidarietà.

Pensare in termini di economia sociale è utile per due ragioni. In primo luogo, perché permette di fare massa critica, includendo un ampio numero di soggetti, diversi ma uniti da valori comuni: la centralità della persona rispetto al profitto, i vincoli di non distribuzione degli utili e del patrimonio, le forme democratiche o partecipative di governance. In questo momento storico il concetto di economia sociale – come definito a livello europeo, dal Piano di azione per l’economia sociale (2021) e dalla Raccomandazione del Consiglio europeo (2023) – è quello che si presta meglio a dare visibilità ad un fenomeno plurale, perché è riconosciuto a livello internazionale e perché discende da una definizione al tempo stesso precisa ma comprensiva, che consente un’interazione più stretta tra cooperative e mutue, imprese sociali e associazioni, fondazioni e enti filantropici. Senza confusione con altri concetti che nel corso degli anni hanno cercato di proporre un rapporto più equilibrato tra economia e società, ma in contesti e con finalità differenti.

La seconda ragione per cui serve pensare in termini di economia sociale è che si tratta di un concetto che non si lascia rinchiudere in una posizione terza rispetto a Stato e mercato, ed indica invece la volontà di intervenire nel funzionamento sia dell’uno che dell’altro, esercitando un’azione trasformativa. È un modo per non aggirare, bensì affrontare direttamente, il tema della logica di funzionamento che sovrintende le istituzioni politiche e le dinamiche economiche, rivendicando su entrambi i fronti il ruolo attivo dei soggetti e delle organizzazioni sociali. Dopo decenni in cui il discorso economico ha di fatto colonizzato lo spazio pubblico è all’idea stessa di economia, infatti, che bisogna puntare se si vuole affermare un paradigma differente.

Credit foto: Unplash

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