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Tra il dire e il fare...

L’innovazione sociale sa “cosa fare”, ma non “come fare”

In ballo c’è la riscrittura di quella narrativa del cambiamento e delle trasformazioni che si trova sempre meno dentro quadri teorici. Occorrono esperienze e pratiche da toccare con mano

di Flaviano Zandonai

Quale semantica scaturisce dagli strumenti che usiamo per fare innovazione sociale? Credo sia utile interrogare il potere significante degli svariati tool che popolano la cassetta degli attrezzi di persone e organizzazioni che a vario titolo si candidano al ruolo di agenti di cambiamento, spesso accompagnandolo nei suoi variegati (e volte tortuosi) processi.

Ci pensavo qualche tempo fa guardando all’opera un team di designer alle prese con un percorso di open innovation per un’impresa sociale. L’esercizio era in apparenza semplice, ovvero declinare in termini di speranze e di timori una serie di tendenze esterne e interne del tipo “il mondo sta accelerando esponenzialmente” piuttosto che “riorganizzarsi a causa di sovrapposizione di ruoli, funzioni, responsabilità” e via dicendo.


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La questione semantica, almeno in questo caso, non riguardava tanto la correttezza o la pertinenza dei contenuti in sé ma piuttosto dove questi si originano e come vengono appropriati dai destinatari che in questo caso erano imprenditori, manager e operatori sociali. A volte si danno per scontati questi passaggi, ma invece non è così perché sappiamo bene che il diavolo si annida nei dettagli. Basti pensare a quanti item e scale compiliamo in questionari di monitoraggio e di valutazione che generano indici e indicatori da cui discendono scelte importanti in termini di allocazione delle risorse e riorganizzazione delle attività. Il tema è rilevante anche in termini di economici pensando a quanto questi strumenti certificati da università, think tank, centri di ricerca vengono veicolati dietro compenso per ottenere, ad esempio, il famigerato “bollino” o “spunta” di qualità. Una catena del valore che meriterebbe più di un approfondimento considerando che i beni rappresentati da dati e conoscenza richiedono notevoli investimenti anche da parte di quelle organizzazioni che poi li riacquistano  “impacchettati” in reportistica e consulenza.

Tornando al caso in oggetto mi è sembrato interessante lo sforzo fatto in sede di preparazione dello strumento da parte degli accompagnatori attraverso webinar preparatori allo scopo di fare emergere i trend poi diventati oggetto di lavoro. Niente scenari preformattati buoni per tutte le stagioni. O meglio, una loro riproposizione però molto filtrata da conoscenze e sensibilità di contesto. Ma non è tutto. In sede di esecuzione dell’esercizio è emersa anche una propensione dei partecipanti ad appropriarsi delle due lenti – speranze e timori – attraverso cui leggere i trend. Ad esempio le speranze sono emerse come tutto ciò che è in primis “praticabile” piuttosto che come aspirazioni in grado di traguardare sfide e difficoltà contingenti. E i timori prima di essere guardati in faccia hanno avuto bisogno di essere esorcizzati non tanto (o non solo) per depotenziarli, ma per poterli ricomporre dentro quadri di relazione sistemica.

Possono sembrare dettagli però in questi sforzi di adattamento e di personalizzazione da una parte e di appropriazione e condivisione dall’altra vedo un tentativo di significazione che oltre a evitare una deriva “ingegneristica” nell’uso degli strumenti di facilitazione può aiutare anche rispetto ad un compito ancora più rilevante. In ballo, infatti, c’è la riscrittura di quella narrativa del cambiamento e delle trasformazioni che si trova sempre meno dentro quadri teorici che una produzione scientifica iperspecialistica fatica a riproporre e ancora meno all’interno di freddi set di indicatori tecnocratici che ambiscono a guidare le transizioni.

Un’esigenza ben colta addirittura dalle Nazioni Unite che nel “Summit of the future” previsto il prossimo mese di settembre ha richiamato l’attenzione sul fatto che ormai sul cosa fare sappiamo, se non tutto, molto (vedi l’agenda 2030), mentre invece c’è un deficit di capacità e desiderio sul come fare. Ecco, risignificare lo strumentario della social open innovation potrebbe davvero rappresentare un importante contributo in tal senso.

Foto: Bruno Scramgnon/Pexels


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