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Salario minimo, siamo sicuri che sia la strada giusta?

Il problema della contrazione dei salari che ristagnano in un contesto inflattivo, dunque della riduzione del potere d’acquisto è un problema drammatico. Che il salario minimo sia la risposta appare quantomeno dubbio. Eppure la proposta ha trovato l’appoggio di quasi tutte le opposizioni e grande favore nel dibattito pubblico

di Simone Cerlini

Il 4 luglio 2023 è stata depositata alla Camera dei deputati la proposta di legge unitaria delle opposizioni, sottoscritta da Movimento 5 Stelle, Sinistra Italiana, Azione, Partito Democratico, Europa Verde e +Europa sul salario minimo.

Il salario minimo proposto è circa il 75% del salario mediano. Per intenderci la direttiva europea raccomanda di attestarsi al 60%. Ma siamo sicuri che sia la soluzione migliore in un Paese in cui Istat stima in 3,7 milioni i lavoratori irregolari (anzi di unità lavorative a tempo pieno, quindi le persone al nero o al grigio sono molte di più)? Il problema della contrazione dei salari che ristagnano in un contesto inflattivo, dunque della riduzione del potere d’acquisto è un problema drammatico. Che il salario minimo sia la risposta appare quantomeno dubbio. Eppure la proposta ha trovato l’appoggio di quasi tutte le opposizioni e grande favore nel dibattito pubblico. In un Paese dove anche i profitti ristagnano l’introduzione per legge del salario minimo probabilmente avrà un impatto negativo sul tasso occupazionale e sarà un incentivo a incrementare il sommerso. Perché allora sembra essere la panacea della riduzione dei salari reali? La risposta la dobbiamo cercare nella fallacia tecnocratica. La tecnocrazia si fonda sul presupposto che ci siano obiettivi dati in partenza, universali e indiscutibili, come la crescita e la promozione dell’uguaglianza, e fin qui potremmo pure essere d’accordo. Sostiene anche che per raggiungere quei fini la strada sia una sola e che quella strada vada bene per tutti, cioè sia la soluzione migliore nella combinazione degli interessi delle diverse parti in gioco.

Ai vincitori del conflitto sociale piace fare finta di prendersi cura degli ultimi con riforme che non cambiano il rapporto di forze. Ma si guardano bene dall’ascoltare le richieste di coloro che si vantano di difendere

Simone Cerlini

La ragione tecnocratica consapevolmente accantona un’evidenza che sembra tanto banale quanto radicata nella storia: gli interessi delle diverse componenti sociali (parlerei schiettamente di classi) sono tra loro contraddittorie e in conflitto. Non è un caso che esistano oggi conflitti latenti, che non escono alla luce del sole, e che sono guarda caso le istanze delle classi perdenti: le classi medie lavoratrici, che si sobbarcano fette sproporzionate del carico fiscale; i precari a bassa qualificazione, che sono vittime dello sfruttamento; le piccole o piccolissime imprese di fornitura, soprattutto quando legate a grandi committenti. Ai vincitori piace fare finta di prendersi cura degli ultimi con riforme che non cambiano il rapporto di forze. Ma si guardano bene dall’ascoltare le richieste di coloro che si vantano di difendere.

Credit foto: Il segretario della Cgil Maurizio Landini/La Press


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