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Education & Scuola

Scuola, è finito il tempo della maturità (speriamo per sempre)

In questi giorni si sono si è chiuso il rito della "maturità" per i ragazzi delle superiori. Un rito ormai stanco e sbiadito che varrebbe la pena pensionare quanto prima

di Federico Mento

Questi ultimi giorni sono stati par excellence il tempo della “maturità”, una delle due finestre – l’altra è l’inizio dell’anno scolastico – che improvvisamente si spalanca sul mondo della scuola, creando un effimero hype sulla sfera educativa. In un Paese imperniato su liturgie performative, da sempre incline alla iperdrammatizzazione della sfera pubblica, la maturità si incastra a perfezione nel nostro genius loci.

Di norma, nella narrazione mainstream, le generazioni adulte tendono ad utilizzare il metro comparativo, «Io Seneca lo traducevo senza vocabolario», indossando però lenti che distorcono e banalizzano la realtà, «la mia maturità non è paragonabile per severità all’attuale». Di conseguenza, la maturità di oggi non potrà che essere figlia di un dio minore. Credo sia poco interessante stare al passo di questo dibattito seguendo la linea narrativa del «si stava meglio, quando si stava peggio».

Piuttosto, proverei a riflettere sul senso di questo momento, cosa accade dopo aver trascorso un periodo minimo di 13 anni nel sistema educativo. Cos’è oggi la maturità? Moderna ordalia selettiva, rito di passaggio verso l’età adulta, certificatore dell’efficacia dell’apprendimento, sedimento geologico nella confusa successione delle riforme del sistema scolastico; forse tutte e nessuna di queste cose. Ma, a cosa serve davvero la maturità? Per come è stata nel tempo disegnata, dovremmo riconoscere senza infingimenti che il tempo della maturità è finito. Ed è finito, perché quella visione pedagogica della scuola è diventata obsoleta, dalla verticalità elitista dei saperi del Novecento, siamo rapidamente passati ad un’epoca fortemente contraddistinta dall’intersezionalità, dall’apprendere come esperienza del singolo, con tutto ciò che ne consegue in termini di valutazione, oggi la prospettiva è quella di concepire l’apprendimento come fatto cooperativo. Pensiamo, ad esempio, al concetto codificato dall’Unesco nel 2013 di “Learning to live”, ovvero la capacità di muoversi ed agire in ambienti sempre più caratterizzati dalle diversità. Oppure, al più recente rapporto sul futuro della scuola, nel quale l’Unesco propone di lavorare ad un nuovo “contratto sociale” della scuola, alla necessità di pensare ad una pedagogia basata sui «principi della cooperazione e della solidarietà, per sostituire le modalità di esclusione e di competizione individualistica a lungo utilizzate. La pedagogia deve promuovere l’empatia e la compassione e costruire le capacità degli individui di lavorare insieme per trasformare sé stessi e il mondo». Rileggendo questo passaggio, la odiata/amata maturità, o esame di stato che dir si voglia, ci appare come una foto sbiadita, conservata in qualche polveroso album di famiglia che nessuno apre più da tempo. La questione, quindi, è molto più profonda, e ci interroga come società non tanto sul senso della maturità, ma più in generale sul senso della scuola. Sentiamo spesso ripetere che la scuola non può cambiare, una sorta di istituzione monolitica destinata all’immutabilità, eppure, guardando oltre la narrazione dominante sulla scuola, che affastella confusamente stereotipi e fatti di cronaca per enfatizzare ciò che non funziona, esiste una scuola “in transizione”, che ogni giorno sperimenta e fa innovazione dal basso. Una scuola che non è più solo ciò che è dentro il “plesso”, ma è diffusa nelle relazioni che costruisce con la comunità. Una scuola aperta alla partecipazione degli studenti. Ed è qui la grande sfida, iniziare a pensare che possiamo cambiare la scuola, perché cambiando la scuola, cambiamo il futuro del Paese.


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Credit foto: Kimberly Farmer su Unsplash


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