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Se il lavoro diventa un’esperienza (di cui si può fare a meno)

Ormai anche nella capitale italiana del lavoro, Milano, un rapporto subordinato a tempo indeterminato ha una durata media di 48 mesi. Nel periodo gennaio 2023 - giugno 2024, 195.038 lavoratori si sono dimessi da un contratto a tempo indeterminato, pari al 60% di tutte le cessazioni registrate. Persino la pubblica amministrazione ha visto oltre 6mila dimissioni. Come spiegarlo? Il lavoro soprattutto per i giovani ha perso il suo senso relazionale e di contributo al bene comune, per ridursi a esperienza di crescita personale

di Simone Cerlini

Luc Boltanski e Ève Chiapello, nel loro Il nuovo spirito del capitalismo, descrivono la “città per progetti” come il paradigma della contemporaneità. Il capitalismo, nell’epoca delle reti e della flessibilità, non si fonda più sulla stabilità del lavoro, sull’appartenenza a un’azienda, sulla costruzione di percorsi professionali di lungo periodo. Al contrario, il lavoro si frammenta in progetti, ciascuno dei quali è funzionale alla crescita personale e professionale dell’individuo, in un movimento continuo che conduce da un progetto all’altro. Il lavoro diventa un’esperienza, paragonabile a un viaggio, alla partecipazione a un evento, o a una relazione romantica. Il valore dell’esperienza si misura sulla base di quanto essa dà a chi la vive, in termine di benessere, emozioni, riconoscimento, apprendimento, infine competenze e relazioni di valore. L’accumulo di competenze e relazioni diventa essenziale per accedere a progetti sempre più gratificanti, finché il lavoro sostiene la crescita individuale. In caso contrario perde centralità nelle scelte. L’orizzonte temporale si accorcia: il tempo del lavoro non è più quello della carriera, ma quello dell’incarico, del ruolo, della missione, in attesa della prossima opportunità.

La copertina del numero di VITA magazine di maggio, a cui hanno contribuito anche gli autori di questo articolo, Simone Cerlini

Questa trasformazione alimenta la logica del lavoro come esperienza temporanea, in cui la soddisfazione immediata (in termini di gratificazione, crescita, relazioni) è più importante della costruzione di una prospettiva di lungo termine. Il lavoro non è più un elemento chiave dell’identità. Se è solo un’opzione tra molte per la crescita individuale, diventa logico accumulare risorse per uscire dal ciclo produttivo e accedere alla rendita. Se questa interpretazione fosse vera, dovremmo vedere il tempo medio delle relazioni lavorative accorciarsi, così come una progressiva tendenza a esaltare il valore della rendita sul lavoro. 

I dati confermano questa trasformazione. Secondo le elaborazioni di Antonio Verona, del novembre 2024, su dati dell’Osservatorio del Mercato del Lavoro dell’area metropolitana di Milano, un rapporto subordinato a tempo indeterminato ha una durata media di 48 mesi, con una sopravvivenza oltre i 24 mesi solo per poco più della metà dei contratti avviati. Questo dato non è il risultato di una crisi congiunturale, ma riflette una tendenza di lungo periodo già evidenziata nel 2013, quando il 30% dei contratti cessava entro 15 mesi, percentuale cresciuta al 40% nel 2015. Nel periodo gennaio 2023 – giugno 2024, nella sola Città Metropolitana di Milano, 195.038 lavoratori si sono dimessi da un contratto a tempo indeterminato, rappresentando circa il 60% di tutte le cessazioni registrate. Persino la pubblica amministrazione, un tempo sinonimo di stabilità, ha visto oltre 6mila dimissioni.

L’analisi generazionale di queste transizioni è illuminante: quasi la metà dei dimissionari ha meno di 34 anni, una quota significativa non coperta da alcuna forma di sostegno al reddito. Nel terziario, che copre il 75% del mercato milanese, i contratti sono strutturalmente più brevi. In effetti, le dimissioni si concentrano nelle attività professionali rivolte alle imprese, che richiedono competenze medie e alte e che costituiscono l’83% del volume totale delle cessazioni.

A tutto ciò si aggiunge un altro dato significativo: per chi si rioccupa, il 68% cambia qualifica professionale, e quasi la metà di questi cambia anche tipologia contrattuale, a dimostrazione del fatto che la ricerca di un cambiamento è ormai una priorità che supera la stabilità o la continuità lavorativa.

La riduzione del tempo investito nel lavoro si riflette anche in altre scelte esistenziali. Se il futuro è solo l’insieme di opportunità da cogliere nel breve periodo, allora gli investimenti a lungo termine – quelli che richiedono decenni di impegno – perdono di significato. Lo vediamo nella crisi demografica, dove la scelta di avere figli è sempre più rimandata o esclusa. Costruire una famiglia presuppone una progettualità di lunghissimo periodo, una continuità che il modello del progetto individuale non contempla. Lo stesso vale per la previdenza: l’idea di accantonare risorse per un futuro lontano diventa estranea a un modello di vita che non prevede certezze oltre il prossimo ciclo professionale. 

Milano è l’esempio italiano del nuovo spirito del capitalismo descritto da Boltanski e Chiapello. La terziarizzazione dell’economia ha trasformato la percezione del lavoro e contratto l’orizzonte temporale. Ma per quanto riguarda l’altro aspetto della teoria, la promozione delle rendite, come stanno davvero le cose?

Robert Kiyosaki, guru dell’educazione finanziaria, ha reso celebre con Padre Ricco Padre Povero la svalutazione del lavoro salariato a favore dell’accumulo di asset e della rendita. Ancora più esplicito è un altro libro di grandissimo successo, il Quadrante del Cashflow, in cui Kiyosaki suddivide il mondo del lavoro in quattro categorie: dipendenti (employee), lavoratori autonomi (self-employed), imprenditori (business owners) e investitori (investors). Secondo Kiyosaki, la vera evoluzione personale non consiste nello sviluppo di competenze, nel massimizzare il proprio contributo agli altri e nel concorrere in modo sempre più diretto alla costruzione di regole comuni, ma nel transitare verso la proprietà di asset e la gestione finanziaria. Un percorso che diventa una sorta di aspirazione sociale, dove il successo si misura sempre più in termini di distacco dal lavoro produttivo e di accesso a meccanismi finanziari.

Nelle grandi dinastie industriali, il fenomeno è evidente: come racconta Paolo Manfredi nel numero di VITA magazine di maggio, il modello non è più quello dell’industriale che accumula capitale per reinvestirlo nella fabbrica, ma quello dell’investitore che sposta il proprio focus dalla manifattura al mercato finanziario, dalla creazione all’estrazione della ricchezza. La logica della speculazione finanziaria ha soppiantato l’idea di un’impresa come eredità da trasmettere e sviluppare nel tempo attraverso investimenti e innovazione.

La nuova percezione del tempo nel capitalismo delle rendite prefigura la fine del futuro. Il tempo si riduce a una serie di esperienze di crescita che prevalgono su ogni idea di eredità, continuità, responsabilità collettiva o famigliare. Se il modello sociale promuove l’accumulo di capitale e l’uscita dal lavoro come valore, diventa inevitabile che il tempo si restringa, e l’orizzonte si contragga al breve termine.

Il lavoro nell’epoca della fine del futuro ha cambiato di segno, ha perso il suo senso relazionale e di contributo al bene comune, per ridursi a esperienza di crescita personale: se non risponde a questa aspirazione, è un’opzione non più desiderabile. Del lavoro se ne può anche fare a meno.

Foto: Pexels

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