Margaritis Schinas

«Sull’immigrazione l’Europa impari ad essere comunità»

di Redazione

Nella terza puntata de "I dialoghi con l'Europa", Luca Jahier incontra il vicepresidente della Commissione Von der Leyen che si sta occupando del nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo, ma anche degli aspetti legali dell’inclusione e dell’integrazione: «Non è sostenibile che 5 Stati membri facciano tutto il lavoro anche per gli altri 22. Nel piano della solidarietà, non ci sarà una porta di uscita: tutti devono contribuire»

Margaritis Schinas è vicepresidente della Commissione europea con delega sulla promozione dello stile di vita europeo; in tale veste, ha la responsabilità diretta di diverse politiche, in raccordo con i singoli commissari che sono titolari dei rispettivi portafogli. In particolare, lo sviluppo delle competenze e l’educazione, , la cultura e lo sport, le politiche di integrazione e il coordinamento delle politiche migratorie e di sicurezza dell'Unione, la lottt contro le minacce ibride, la promozione dell’eguaglianza e delle diversità, il dialogo conle Chiese e la lotta contro l’antisemitismo. È lui il protagonista del terzo dialogo sull'Europa curato da luca Jahier, ex Presidente del Comitato Economico e Sociale Europeo (Cese) dopo gli incontri con Nicolas Schmit, Commissario per l'occupazione e i diritti sociali e Juan Fernandez López Aguilar, presidente della Commissione per le libertà civili del Parlamento Europeo.


Luca Jahier: In questo momento, in cui ci troviamo ad affrontare un’altra crisi imprevista, quella legata alla pandemia, come pensa che possiamo proteggere il nostro stile di vita europeo, che sta al centro della sua iniziativa politica?

Margaritis Schinas: Ricorderete il discorso di Emmanuel Macron alla Sorbona, quando disse che il futuro dell’Europa è un’Europa che protegge, e un’Europa che fa empowering, apre opportunità e possibilità per tutti. Dobbiamo fare in modo che la nostra Unione sia protetta da minacce alla sicurezza, assicurarci di avere un sistema ordinato per gestire le migrazioni, per poter organizzare risposte comuni a minacce sanitarie e pandemie, e questa è una parte. L'altra parte, l'Europa che fa empowering, è fatta di politiche che forniscono opportunità di arricchimento di competenze, che ci portano ad avvicinarci gli uni agli altri, che ci rendono orgogliosi di essere europei; e queste sono l'istruzione, la cultura, le politiche giovanili e sportive, le politiche per le competenze, il dialogo interreligioso e la lotta all'antisemitismo. Questi 15 terribili mesi di pandemia che abbiamo attraversato sono stati un reminder molto forte di quanto sia prezioso mantenere le basi fondamentali del nostro stile di vita. L'Europa è rimasta salda, e abbiamo riconfermato il valore della nostra salute pubblica, e dei nostri sistemi di istruzione pubblica. Abbiamo riconfermato il nostro modello sociale, siamo stati in grado dimostrare solidarietà ai nostri vicini e amici, abbiamo organizzato il più grande programma vaccinale della storia dell'umanità, e stiamo ora implementando un enorme Recovery Fund, così da poter uscire dalla crisi tutti insieme. In breve, questo è lo stile di vita europeo. Non è una questione di etichette, è il contenuto che è importante.

J.: In questi ultimi 15 mesi, la pandemia, la strategia vaccinale, il Green Pass, l’EU For Health, che fino a un anno fa non era nemmeno considerata parte dei compiti dell’Ue; Covax, il tentativo di guidare la solidarietà a livello mondiale per fornire i vaccini, sono stati e sono i compiti quotidiani, certamente non facili, del team della Commissione Von Der Leyen. Cosa sta andando nella giusta direzione e cosa, invece, rischia di non farlo?

S.: All'inizio ci è parso uno scenario da fantascienza, nessuno se lo aspettava. Gli Stati membri sono rimasti molto spiazzati ed hanno pensato che la risposta giusta dovesse essere nazionale. Quindi, hanno fatto molti errori. L’Ue non ha competenze significative nel settore della salute pubblica. Dunque, abbiamo dovuto compensare queste difficoltà, e sono contento del fatto che sia stato fatto velocemente. Gli Stati membri hanno capito molto in fretta l'interdipendenza dei nostri sistemi, il potere del nostro mercato interno e delle filiere integrate che ci permettono di rifornire i nostri supermercati e avere spostamenti di beni e servizi chiave. Quindi, siamo passati molto velocemente da una modalità egoistica a una modalità comunitaria. Abbiamo iniziato a coordinarci, a unire le forze per ottenere forniture congiunte di attrezzature di protezione, etc. Abbiamo coordinato le decisioni riguardo i confini, abbiamo “iniettato” sempre più Europa nelle politiche di risposta alla crisi. Al contempo, noi, come istituzioni, abbiamo esplorato e sfruttato ogni singolo centimetro delle nostre competenze in materia di politiche sanitarie, per fare cose che non erano mai state fatte prima; è stato un piccolo miracolo riuscire a implementare questo programma vaccinale. Stiamo gradualmente costruendo un'Unione Europea della Salute, con un nuovo programma autonomo dedicato per i prossimi 7 anni, Eu for Health. Abbiamo rafforzato gli Statuti delle nostre due Agenzie sanitarie, l’Ecdc a Stoccolma e l’Agenzia Europea del Farmaco ad Amsterdam, e stiamo lavorando sulla biopreparazione, con la prossima creazione di una nuova agenzia, l’Hera – Health Emergency Response Authority. Questo per quanto riguarda il lato della salute pubblica.
Sul lato economico, abbiamo attraversato il Rubicone la scorsa estate con il passo storico e senza precedenti del Recovery and Resilience Facility, che ci unisce tutti sulla base di una risposta simmetrica a una crisi simmetrica. Sono passati 15 mesi, e nonostante questa tragedia che è costata la vita a molti nostri concittadini e ha minacciato il nostro stile di vita, penso che si debba essere in cattiva fede per non riconoscere che l'Europa è riuscita a gestire bene la risposta alla pandemia, sotto tutti i possibili fronti.

J.: Nella prima crisi (quella economico-finanziaria del 2008), ci sono voluti quattro anni all'Europa per dire “whatever it takes”, stavolta non ci sono voluti più di quattro mesi per giungere alla strategia vaccinale e al Next Generation EU. Ritiene che questo spostamento da una risposta intergovernativa, che era l'unica possibile ai tempi, a questa nuova risposta comunitaria, sia un cambiamento strutturale nell'Unione Europea, o che sia stata determinata solo dall’emergenza e che presto torneremo al vecchio approccio nazionale?

S.: Guardando indietro alla storia dell'integrazione europea, ci sono due tendenze che si sono sviluppate fin dalla fondazione. Il primo è il mantenimento dello status quo.. Il secondo approccio è basato sul principio del “Stiamo andando a fuoco, facciamo qualcosa! E facciamolo insieme”. Queste due tendenze hanno plasmato il processo di evoluzione dell'integrazione europea. Non ho il minimo dubbio nell’affermare che il primo sia il peggior nemico dell’Europa: la stagnazioneci famale. Ogni volta che il sistema, i governi, i cittadini, le nostre società ricorrono alla via comunitaria si fanno passi in avanti. Ogni volta che cadono vittime della stagnazione ”, allora si abbozzano soluzioni intergovernative e frammentarie. Non dovrebbe esserci questa alternanza. Non dovrebbe esserci bisogno delle crisi per ricordarci che abbiamo bisogno del modello comunitario.


La videointervista integrale in lingua inglese

J.: C'è però una altra crisi dove siamo ancora in mezzo al mare, siamo ancora in un sistema di veti intergovernativi: la crisi delle migrazioni. La vostra Commissione ha preso avvio con la promessa di Ursula Von Der Leyen, di avere un nuovo patto sulla migrazione in tre mesi. Lo scorso settembre è emersa una proposta su un Patto europeo sulle migrazioni. sono passati otto mesi e ancora non esiste un consenso né tra gli Stati membri, che ritengono vi siate spinti troppo in là, né in Parlamento, che al contrario ritiene abbiate avuto poco coraggio. Intanto si susseguono le tragedie in mare. Per quale ragione non siamo ancora arrivati ad avere ciò che Enrico Letta ha chiamato un Next generation per le migrazioni?

S. : Lo stallo di cui lei parla è il risultato di un “non sistema”. Abbiamo un patchwork di diverse soluzioni regolatorie, che producono risultati normativi molto disomogenei, e non ci danno la visione olistica e coesa di cui abbiamo bisogno come europei. Per porre rimedio a questa situazione, abbiamo messo sul tavolo, a settembre dello scorso anno, la nostra proposta, ed è stata la prima proposta di sempre per sostituire il “non sistema” esistente con un nuovo framework, un vero framework europeo. Mi piace presentarlo come un edificio a tre piani, dove la qualità e la resistenza di tutti e tre i piani deve essere la stessa così che l'edificio possa rimanere in piedi. Il primo piano è la costruzione di nuove relazioni con i Paesi di origine e di transito perché possano creare migliori condizioni di vita per i loro cittadini. Dobbiamo aiutarli a riprendersi i cittadini che non hanno diritto a stare in Europa, e reintegrarli nelle loro società. Questo è un punto importante. Il secondo piano è costruire un nuovo sistema per la gestione comunitaria del fenomeno: l'Europa è un'Unione, è ingiusto lasciare la responsabilità della gestione dei confini soltanto agli Stati membri di frontiera, questa è una responsabilità comune europea. Abbiamo Frontex, l'Agenzia europea della Guardia di frontiera e costiera, che sarà molto più presente, con molte più guardie costiere e molte più risorse. Il terzo piano, molto importante, è quello della solidarietà e della condivisione. C'è bisogno che tutti accettino la loro parte di responsabilità riguardo l'immigrazione: non è sostenibile che 5 Stati membri sostengano tutto il peso mentre gli altri 22 stanno a guardare: tutti devono contribuire. L'immigrazione tocca il nucleo duro della sovranità nazionale, ma abbiamo bisogno di un accordo europeo, perché non possiamo permettere che l'Europa fallisca su un tema così importante.

J. : C'è anche un altro piano che è piuttosto importante, e che riguarda il 90% dei migranti che sono già nei nostri Paesi. Lei ha presentato un piano d'azione per l'inclusione e la migrazione alla fine di novembre, che è piuttosto cruciale, vista anche la crescita del razzismo, della xenofobia e dell'antisemitismo, non solo verso chi sta arrivando ai nostri confini, ma anche verso chi vive già nei nostri Paesi. Come greco, nato a Salonicco, è certamente consapevole dell'importanza della cultura nel plasmare il nostro spazio pubblico ed anche il futuro dell'Europa. Quando ero presidente del Cese, ho spinto molto affinché la cultura avesse un ruolo preminente nella costruzione del futuro di domani. Ora, la Presidentessa Von Der Leyen ha lanciato il progetto New European Bauhaus, e ha dichiarato che l'economia e la politica sono necessarie ma non sufficienti: abbiamo bisogno di qualcosa in più, di una narrativa comune. Come costruirla?

S.: La cultura fa parte del mio portafoglio e lavoro a stretto contatto con la commissaria Mariya Gabriel; devo dire però che non ho mai interpretato il New European Bauhaus come un progetto di natura puramente culturale. Al contrario, direi che il New European Bauhaus è stato un modo di mettere insieme la cultura e la ricerca, la tecnologia, l'ambiente, gli ecosistemi, le risorse naturali, l'architettura. In poche parole, riguarda la traccia che la specie umana lascerà in tutti gli aspetti della nostra esistenza. Il Bauhaus è stato un movimento architettonico e culturale tedesco che si è sviluppato tra le due guerre ed è stato specifico di quella transizione. Ora noi abbiamo un'altra transizione, una transizione trasformativa verso un'Europa verde, un’Europa digitale, un'Europa più sostenibile, verso un nuovo tipo di ricerca e sviluppo nei vaccini e nella genomica. Tutto questo è legato alla cultura, ai nostri valori, a ciò che rappresentiamo, al nostro stile di vita, alle ragioni per cui il mondo ammira l'Europa.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA