Giulio Ferroni

La scuola deve preparare i giovani a salvare il pianeta

di Sara De Carli

Si è guardato alla scuola come parcheggio o nella sua funzionalità economica, volta all’acquisizione di competenze necessarie per formare il “capitale umano”. È la dura analisi di Giulio Ferroni, professore emerito della Sapienza di Roma, in libreria con “Una scuola per il futuro”. Tutti parlano di STEM ma serve un'altra visione della scienza e della tecnologia, che faccia i conti con l'alterità della realtà e con il limite: «Serve un umanesimo ambientale contro il rischio di un umanesimo tecnologico o digitale»

Ha raccontato la scuola sospesa (1997) e la scuola impossibile (2015). Ora, con il Covid-19 che «ha mandato in fumo tante discussioni, tanto agitarsi e arrabattarsi di politici, di pedagoghi, di sindacalisti, di riformatori e di resistenti alle riforme», dal momento che la scuola «è stata letteralmente sospesa e per alcuni mesi letteralmente impossibile», Giulio Ferroni – professore emerito della Sapienza di Roma – torna a riflettere sull’educazione con Una scuola per il futuro, uscito il 26 agosto per La nave di Teseo. «Di scuola viva c’è bisogno», dice. «Oggi più che mai c’è bisogno di un autentico rilancio della scuola, che la liberi dalla burocratizzazione in cui è caduta negli ultimi anni e dalla condizione di parcheggio a cui spesso è stata piegata. Di fronte al dominio del digitale e dei social media, di fronte al diffondersi di una pericolosa incultura, tra ignoranza, stupidità, irrazionalità, dilagare incontrollato della menzogna e della volgarità, le giovani generazioni hanno bisogno dello schermo forte della cultura e della scienza, di quella razionalità problematica che non può certo far leva su motivazioni spicciole, ma sul presente precipitare della storia e sulla necessità di ‘salvare’ il futuro, sulla responsabilità per il destino del pianeta, in cui tutti siamo coinvolti».

Dove a suo parere in questo anno e mezzo la scuola ha mostrato la sua fragilità? O si tratta solo della gravità e imprevedibilità dell’emergenza sanitaria? Perché siamo a un punto di svolta per la scuola?
Il punto di non ritorno è determinato da quel che succede a livello mondiale, il Covid è una spia dei rischi. La vera urgenza che riguarda il mondo è il rapporto con un ambiente che rischia di diventare non vivibile: questo rischio sarà sempre più forte nei prossimi decenni. La scuola deve dare ai ragazzi la coscienza del presente, una coscienza civile che dia il senso della compatibilità della vita nel futuro. Invece come scuola cosa stiamo cercando di fare? Di ricominciare come se nulla fosse accaduto, assegnando alla scuola la stessa funzionalità economica di prima: la scuola è importante per l’acquisizione di competenze necessarie per la formazione e la cre­scita del capitale umano. Al più si pensa di correggere le contrad­dizioni più macroscopiche, con più attenzione per l’equità sociale e per la sostenibilità economica, ma senza cambiare il paradigma…La sfida è un’altra: è far sì che le giovani generazioni abbiano una coscienza del limite e sappiano agire per invertire la rotta, capendo che la realtà non è qualcosa che scorre in avanti e basta verso un benessere ulteriore e che non tutto è semplice, facile, progressivo.

Che tipo di cultura, di discipline, di didattica serve per farlo?
Non le flipped classroom e il coding per tutti, di cui tanto si parla. C’è bisogno di una culta forte. Suggerirei un approccio severo alla scienza e alla cultura umanistica, integrate come coscienza del mondo e delle sue contraddizioni. Invece domina una assolutizzazione delle presunte tendenze dominanti, ad esempio la digitalizzazione come a priori. Il digitale è utilissimo come strumento, non se diventa il modello dell’universalizzazione dell’esistenza. Mi pare folle. Se non riusciamo a fissare l’orizzonte digitale come strumento di ricerca e non come modello antropologico andiamo verso una società con meno coscienza e più conflittualità.

Lei infatti parla del rischio di un umanesimo tecnologico o di un umanesimo digitale e afferma dice che l’unico umanesimo oggi possibile e auspicabile è un umanesimo ambientale. Mi colpiva perché iniziano in effetti ad alzarsi voci che segnalano una certa preoccupazione sull’enfasi sulle STEM a discapito dell’humanitas, un tranello… Come questo umanesimo ambientale può declinarsi a scuola?
Non so articolarlo, non sono un pedagogista. Ma questa prospettiva è necessaria. Serve una ricostruzione dell’umano, che sappia inserire la tecnologia nell’orizzonte del riconoscimento dello spazio di vita e della necessità di salvaguardare questo spazio di vita a livello universale. Siamo a un punto di non ritorno nel nostro stare al mondo e la scuola dovrebbe aiutarci, non con lezioni astratte di ecologia ma partendo dalle discipline stesse insegnate. Occorre il senso della storia, per capire che il mondo non è stato sempre così e che quindi può essere in futuro non solo diverso da così ma anche peggiore di così. Si tratta di far concepire la complessità delle discipline, non dominandone tutti gli aspetti ma avvertendo i limiti del sapere e la necessità di confrontarsi col sapere e con l’organicità delle discipline. La vera competenza infatti si può acquisire solo con la conoscenza. Invece quando si parla solo di competenze si fa riferimento al saper fare le cose senza interrogarsi sulla motivazione delle cose. La competenza esclude non la motivazione personale ma quella culturale e universale, perché ogni competenza in realtà sta dentro l’orizzonte del sapere umano. Io ho paura di una competenza che sia separata dalla conoscenza critica del contesto e della motivazione: è funzionale a un’economia che non ha il senso del proprio limite nel mondo. Ora c’è l’enfasi sulle STEM, con una pressione fortissima sui docenti, ma è sfalsante, occorre sentire che le scienze non coincidono con la tecnologia, che la matematica non è calcolo o algoritmi ma indagine sulla struttura della ragione e della realtà. A me invece pare tornata la voglia di consumare la realtà, come prima. La scienza al contrario è interrogazione realtà, si serve dalla tecnologia per trasformare la realtà ma non ci può portare fuori dalla realtà stessa, perché la materia del mondo resiste minacciosamente alla nostra illusione di portare tutto nel digitale. Il problema delle generazioni future sarà questo. Ma non vedo la necessaria attenzione ai veri problemi del nostro esser sulla terra oggi. È in atto un maquillage perfetto, ma i problemi esplodono quando si vive la realtà, la vita quotidiana, con le sue contraddizioni e la sua incertezza.

Quindi primo compito è insegnare a confrontarsi con il limite e l’incertezza.
I giovani cercano di sfuggire dall’incertezza bruciando il presente, la scuola dovrebbe abituarli a interrogare il senso di questa incertezza che vivono, dandogli prospettive per fagli capire che loro hanno in mano il destino del mondo: non nel trasformalo all’infinito ma nell’essere costruttori di competenze che devono servire a costruire altri modelli di vita. La cultura umanistica coniugata con quella scientifica deve fare questo, suggerire altri modelli di vita.

Nel libro racconta che questa riflessione è nata nei mesi del lockdown, quando era impegnato nella revisione del suo manuale di storia della letteratura e si è interrogato sul senso e sul de­stino di fare storia della letteratura a scuola. Oggi ci entusiasmiamo tutti dei prof che declinano Dante con un bot: qual è la sua reazione?
Dal punto di vista teorico è tutto legittimo. Però Sergio Quinzio diceva che quando noi pretendiamo di guardare a tante cose elaborate nel passato – il mito, la religione, la poesia – e analizzandole e ricostruendole con strumenti nati dopo, rischiamo di dimenticarci che il senso vitale di quelle cose era diverso. Facciamo un tradimento dell’alterità di quel passato. Si può giocare con Dante, con i quadri, con il passato, farci i videogiochi, non sono contrario, ma non dire che questo è un modo per accostarci a Dante e capirlo meglio, perché così facendo perdiamo il contesto della sua esperienza di vita. Io invece credo che sia importante anche educare a sentire l’alterità del mondo, delle persone, della storia… È qualcosa che insegna il rispetto dell’altro, è una lezione di vita. Sbandieriamo l’inclusività ma questa implica il sapere vivere il rapporto con l’alterità. È il fondamento del rapporto con le discipline del passato e la loro significatività nel presente: un umanesimo ambientale deve fare leva proprio su questo, sulla necessità e l’importanza della distanza e dell’alterità.


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