Carlo Borzaga

Ci vorrebbe un’università della cooperazione

di Riccardo Bonacina

Borzaga che è tra i più grandi e seri studiosi dell’economia sociale e cooperativa ci racconta la sua nuova sfida, quella con la malattia. E suggerisce una ricetta per ridare valore al lavoro sociale

Professore senior dell’Università di Trento, università per cui dal 1996 al 2008 è stato, tra le altre funzioni ricoperte, su indicazione del rettore Presidente e coordinatore dell’Istituto Studi Sviluppo Aziende Nonprofit (ISSAN) e successivamente fondatore e presidente di Euricse, uno dei più qualificati centri di studi e di ricerca al mondo su economia sociale e cooperazione, Carlo Borzaga è certamente tra i più grandi e seri studiosi dell’economia cooperativa: sono centinaia le sue pubblicazioni e articoli scientifici. L’ha studiata, promossa l’economia della cooperazione e anche praticata, avendo contribuito a fondare e presieduto per nove anni una delle prime cooperative impegnate nel sociale – Villa Sant’Ignazio di Trento -, partecipato attivamente alla costituzione della Federazione nazionale delle cooperative sociali e del Consorzio Nazionale CGM di cui fu amministratore dal 1986 al 1989 e responsabile del Centro Studi oltre che della Rivista Impresa Sociale.

Dallo scorso agosto, il prof è alle prese con una nuova sfida, non più culturale, ma personale, esistenziale, sfida imposta da una malattia dal nome che impressiona e a volte spaventa, Sla.

«È una cosa strana, questa malattia in un primo momento allontana un po’ le persone», mi dice Carlo Borzaga che raggiungo con una video call, «hanno un po’ paura, si impressionano, perciò ho adottato la strategia di non dire direttamente della mia malattia ma di farlo dire perché così diviene più sopportabile per l’interlocutore. Ci sono persone che non vengono a trovarmi perché non se la sentono e che poi piangono al telefono. Bisogna dare alle persone il tempo, anche il tempo di dire cosa io rappresento per loro, come sono e sono stato importante (anche gli studenti) e spesso scopro cose che non immaginavo e che fanno piacere».

Una malattia scoperta lo scorso agosto, una forma di Sla causata dalla mutazione di un gene (mutazione Sod), «Il mio è un problema genetico, ora grazie al centro Nemo, il centro aperto nel 2021 a Pergine Valsugana in Trentino, sto facendo una terapia sperimentale che è mirata su questo tipo di Sla che dovrebbe rallentare il cammino della malattia e non solo il mio (sorride)».

Del Centro Nemo è diventato anche “testimonial” (insieme facciamo una risata), «a inizio aprile in occasione del primo compleanno del Centro hanno voluto chiamarmi per un intervento», racconta «così ho testimoniato che oltre all’approccio terapeutico multidisciplinare, ho apprezzato anche l’attenzione alla persona e l’empatia con cui mi sono sentito accolto a partire dal Presidente Alberto Fontana a tutti i medici, ricercatori e infermieri».

C’è una grande serenità in Borzaga, uomo passionale che non si è mai sottratto alle polemiche quando occorrevano. Serenità anche quando gli si chiede cosa ha cambiato la malattia nel suo modo di guardare la realtà, cosa ha tolto cosa ha aggiunto.

«Viaggiare, insegnare, tenere conferenze: parlare in pubblico mi è ormai impossibile. Di notte, a volte, utilizzo una macchina per facilitare la respirazione e un paio di volte al giorno la macchina della tosse. Ho accettato di recente anche l’alimentazione tramite sondino gastrico, quindi sono tante le cose che non posso più fare. Ma a ben guardare dell’insegnamento ero già un po’ stanco e stanco anche di viaggiare, a settantaquattro anni certe cose pesano di più. Perciò, diciamo che la malattia mi ha tolto cose che già mi pesavano. In compenso ho scoperto cose nuove. Innanzitutto ho scoperto la famiglia, la gioia di stare in famiglia, io avevo sempre girato tanto e (ridendo), con mia moglie ci volevamo bene ma come mi diceva spesso “più che altro passavo ogni tanto da casa” (risata), ora invece si sta insieme, mi accudiscono lei, i miei due figli, e questa è la più bella scoperta di questa malattia. Ho poi tre nipotine femmine che mi riempiono dei loro disegni; la seconda, Aurora, di cinque anni, quando mi vede corre a darmi la la mano per aiutarmi ad alzarmi e poi mi accompagna, ed è cosa bellissima».

Cosa ha cambiato la malattia nel tuo lavoro e nella tua ricerca?

«Già da due anni lavoravo affinché Euricse guadagnasse autonomia rispetto al sottoscritto essendo cresciuto così tanto da essere ormai il centro di ricerca più qualificato al mondo sull’economia sociale. Ho così passato la mano al direttore, Riccardo Bodini, e al segretario generale Gianluca Salvatori, e quando mi sono trovato di fronte all’alternativa o di dimissioni subito appena scoperta la malattia, o arrivare, sempre se ce la facevo, alla naturale scadenza che è ora, a maggio abbiamo deciso insieme per la seconda opzione. Ora, sempre che riesca a farlo, vorrei dedicarmi ad approfondire ancor di più un paio di temi che mi stanno appassionando: il primo è quello della democrazia economica, l’importanza della varietà, pluralità, delle forme di impresa; il secondo vorrei continuare la riflessione sull’economia e sull’impresa sociale recuperando la definizione che ne dà la Commissione europea con l’Action plan sull’economia sociale che è poi quella della nostra tradizione. Ecco, vorrei lavorare in modo più sistematico su questi temi».

Tu hai indagato per tanti anni il lavoro sociale, le tue ricerche su remunerazione e su motivazione rimangono insuperabili e tra le poche fatte. Oggi constatiamo come le professioni sociali, quelle di cura, educative e altre, sono le cenerentole del mercato del lavoro sia in termini di remunerazione che di prestigio. Cosa si è sbagliato?

«Si è sbagliato a fare previsioni su medicina, ma anche su infermieristica anche perchè per anni si è confuso il non lavoro di laureati e diplomati con la disoccupazione, ma il non lavoro è quello di chi, per esempio, si specializzava con un master e non è affatto disoccupazione, è questo fraintendimento che ha scentrato le previsioni. Non si è capito che il problema vero era laddove non c’è il titolo di studio.

Il secondo problema è che per troppi anni la sanità è stata un monopolio pubblico e in regime monopolistico gli stipendi li decideva il pubblico e non il mercato e perciò le professioni della cura non sono state rese attrattive sul piano economico.

Il terzo problema, l’ho sempre sostenuto, è che il mondo della cooperazione che risorse ne aveva e ne ha avute, doveva farsi la sua Università così come ce l’ha Confindustria. L’Università aiuta a disegnare e definire uno statuto, e persino uno status, professionale. Avremmo dovuto immaginare dei corsi di laurea per gestori di cooperative e in particolare di cooperative impegnate nei servizi sociali e di interesse generale, oltre ai percorsi già codificati per assistenti sociali, o educatori professionali, dando una cornice alle nuove professionalità che la cooperazione ha inventato. L’Università avrebbe anche contribuito a far uscire da quella subalternità diffusa tra chi lavora in cooperativa rispetto a chi lavora nel privato.

Ora che si è creato il mercato di alcune professioni soprattutto sanitarie ed educative le cose stanno cambiando, sai che anche per la mia esperienza recente posso dire che ci sono infermieri che chiedono anche 80 euro l’ora? Ora che c’è il mercato però constatiamo che manca l’offerta di infermieri.

Se questo settore, quello dell’economia sociale e dei lavori di cura, che ha una sua storia e una sua identità e può fare con modalità proprie qualsiasi cosa fatta seguendo le logiche del mercato e del settore pubblico, non riuscirà a immaginare come competere nel prossimo futuro (cioè domani), cosa occorre per competere, che management, che saperi, che competenze, non usciremo dal problema che oggi Vita solleva con il numero dedicato al lavoro sociale».


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