Medio Oriente

L’attivista israeliano: «Abbiamo bisogno di un futuro di uguaglianza per ebrei e palestinesi»

Itamar Avneri fa parte della segreteria del movimento Standing Together che mobilita i cittadini ebrei e palestinesi di Israele alla ricerca di pace, uguaglianza e giustizia sociale. Sono oltre 10mila le persone che aderiscono al movimento. «La cosa davvero importante da capire è che la società civile israeliana è diversa dal governo israeliano. Proprio come la società civile palestinese è diversa da Hamas. Perciò dobbiamo essere ascoltati, per dimostrare che un ponte di pace tra i due popoli si può costruire»

di Anna Spena

Dall’ospedale di Al Shifa, a Gaza City, i medici negli scorsi giorni avevano già parlato di una situazione catastrofica, disperata. Stamattina, mercoledì 15 novembre, l’esercito israeliano è entrato nell’ospedale, la struttura sanitaria più grande di tutta la Striscia. 

Il Governo israeliano l’ha fatto dicendo che è lì che si nasconde il più grande centro operativo di Hamas. Si è quasi del tutto interrotto il contatto con i medici all’interno. Nella Striscia ci sono 36 centri ospedalieri e, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, 22 strutture sono fuori servizio a causa degli scontri armati. Ma i pazienti stanno morendo, anche i neonati, perché le macchine che li tenevano in vita non funzionano più.

Oltre undicimila i morti dentro la Striscia di Gaza, tra loro 4650 bambini. 1400 i cittadini israeliani morti per mano di Hamas, circa 240 gli ostaggi. Nella Striscia di Gaza, 2,3 milioni di abitanti, oltre 1,6 milioni, stando ai dati Onu, ora sono sfollati. La situazione è critica, ben oltre ogni incubo immaginabile. I morti si seppelliscono nelle fosse comuni per evitare le epidemie, perché a Gaza manca l’acqua. I camion umanitari entrano a singhiozzo dal valico di Rafah – confine con l’Egitto – ma continua a non entrare il carburante. La situazione è già terribile, e può solo andare peggio. Anche se quel peggio – a guardare la realtà di oggi – facciamo fatica ad ipotizzarlo. Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano, continua a respingere le richieste internazionali per un cessate il fuoco. E i civili sono sempre più vittime di un sistema che non hanno scelto e che subiscono. Una pace che parte dalle persone e dalla società civile è possibile? Nessuno può avere una risposta a questo. Ma intanto, più delle altre, è la loro voce che dobbiamo ascoltare.

Standing Together è un movimento nato nel 2015 che mobilita i cittadini ebrei e palestinesi di Israele alla ricerca di pace, uguaglianza e giustizia sociale e climatica.  «Immaginiamo una società che sia al servizio di tutti noi», così si presenta la realtà sul suo sito, in doppia lingua, ebraico e arabo. «Una società giusta ed equa che tratti ogni persona con dignità. Una società che scelga la pace, la giustizia e l’indipendenza per israeliani e palestinesi, ebrei e arabi. Una società in cui tutti godano di una reale sicurezza, di un alloggio adeguato, di un’istruzione di qualità, di una buona assistenza sanitaria, di un clima vivibile, di un salario dignitoso e della possibilità di invecchiare con dignità. Mentre la minoranza che beneficia dello status quo dell’occupazione e della disuguaglianza economica cerca di tenerci divisi, sappiamo che noi – la maggioranza – abbiamo molto più in comune di ciò che ci separa. Quando siamo uniti, siamo abbastanza forti da modificare radicalmente la realtà socio-politica esistente. L’attuale realtà socio-politica di Israele è insopportabile. L’occupazione incessante alimenta la violenza, la paura e l’odio tra israeliani e palestinesi. Standing Together «è un movimento grande e stiamo costruendo una casa comune per tutti coloro che rifiutano l’odio e scelgono l’empatia», dice Itamar Avneri, che fa parte della segreteria del movimento. «Non cancelleremo le nostre differenze, ma crederemo piuttosto in una vera partnership basata su interessi comuni. Questo è il significato di Standing Together». 

Quante persone fanno parte del movimento?

Oltre 5mila sostenitori attivi, donatori. Negli ultimi tempi però il numero di persone che si sono unite a noi è raddoppiato. 

Sono giorni terribili, come vi sentite davanti a tanta distruzione?

Il sette ottobre siamo rimasti tutti scioccati. Spaventati e anche tanto arrabbiati dopo il massacro di Hamas. Molta gente è ancora arrabbiata, tanta gente ha ancora paura. Hanno paura gli ebrei, hanno paura gli arabi. Ma non ci dobbiamo fermare, il motto del nostro movimento è “finché c’è lotta c’è speranza”. Ciò significa che in questo momento di profonda tristezza dobbiamo continuare a sperare di creare una nuova realtà in Israele come in Palestina.

Il vostro movimento dimostra che ebrei e palestinesi possono lavorare insieme per il bene comune

Sì, lo dimostrava prima e continuerà a dimostrarlo anche oggi. La prima cosa che stiamo provando a fare è quella di allentare la tensione, alleggerire l’atmosfera. Nel 2021 c’è stata un’altra guerra a Gaza, e molta violenza in Israele, soprattutto nelle città miste, dove vivono sia ebrei che palestinesi. Già allora avevamo capito che il nostro compito come movimento era quello di impedire che la violenza scoppiasse tra le persone. In quell’anno creammo le “Solidarity Guards”. Gruppi di arabi ed ebrei che lavorano insieme e portano un messaggio condiviso. Oggi continuiamo a fare grandi conferenze, con centinaia di persone, in tutto il Paese. E parliamo di riduzione della tensione, di partnership, di scelte per il futuro, un futuro che deve essere comune, non di separazione. L’unica strada da percorrere, verso il futuro della vita e della sicurezza, è quella del partenariato e della pace. È per questo che stiamo combattendo – contro chiunque voglia vedere una sola nazione in questo paese – e non ci fermeremo finché non avremo vinto.

Come costruiamo un dialogo di pace? Come lo costruiamo se abbiamo negli occhi le immagini del massacro di Hamas e quelle terribili e feroci che ci arrivano dalla Striscia di Gaza?

Continuando con il dialogo tra le parti. Noi proviamo a farlo con gli incontri che spiegavo prima, ma anche con una grande presenza e divulgazione sui social network. Proviamo a spiegare e parlare con tutti della nostra opzione di convivenza.


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Come facciamo a spiegare che è davvero importante ascoltare la voce della società civile?

La cosa davvero importante da capire è che la società civile israeliana è diversa dal governo israeliano. Proprio come la società civile palestinese è diversa da Hamas. La maggioranza dei palestinesi crede nella pace, la maggioranza degli israeliani crede nella pace. Perciò è molto importante che la società civile parli ora, perché dobbiamo mostrare che non siamo uguali al nostro governo. Il nostro governo israeliano è un governo estremista, di destra e pericoloso. Dobbiamo contrastarlo – anche ora in questi gironi di guerra – se vogliamo avere un buon futuro, una buona vita. É importante che ci ascoltino perché se non lo contrastiamo noi questo governo, noi come società civile israeliana, nessun altro lo farà. Come fermare queste violenze? Come costruire un futuro diverso per i due popoli? Da dove cominciare? Sono le domande più grandi che nessuno si pone.

Come iniziamo?

E io personalmente credo che dobbiamo iniziare dalla collaborazione tra ebrei e arabi che vivono in Israele. Perché il 20% della popolazione israeliana è costituita da palestinesi. Cittadini che hanno amici e parenti nella Striscia di Gaza e nei territori occupati della Cisgiordania. Dobbiamo costruire un ponte per la pace tra israeliani e palestinesi che vivono nei territori occupati da Israele e a Gaza. Credo che l’unico modo per vivere in sicurezza sia quello di raggiungere la pace tra israeliani e palestinesi. Ma come dicevo prima se vogliamo costruire questo ponte, prima dobbiamo costruire una partnership tra israeliani e palestinesi che vivono in Israele. Dobbiamo dimostrare alla gente che è possibile costruire un Israele che non sia solo il Paese del popolo ebraico, ma il Paese di tutti i cittadini. E che se tutti cittadini avranno pari diritti tutti ne avremo vantaggio. Questa partnership da sola non sarebbe sufficiente, ma è comunque una componente cruciale per portare la pace. 

Anche la situazione in Cisgiordania è difficile.

È terribile, lo era anche prima dell’attacco di Hamas. Da tanto tempo in Cisgiordania c’è tantissima violenza a danno dei cittadini palestinesi. Non dimentichiamo che il governo israeliano è un governo fatto anche da coloni, che provengono dagli insediamenti occupati, e che incoraggiano, chi vive nelle colonie, ad usare la violenza. E questo è un altro motivo per cui dobbiamo risolvere la questione con un ponte di pace Israelo-palestinese, un ponte che passa anche dall’indipendenza dei palestinesi. Gli eventi degli ultimi mesi ci hanno insegnato che non si può vivere sotto un’occupazione continua e con una disputa tra i due popoli, dobbiamo superarla. 

Credit foto pagina Facebook Standing Together

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