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Welfare e minori

Le famiglie sono cambiate, al servizio sociale i vecchi strumenti non bastano più

Gli operatori dei servizi avvertono l'urgenza di avere nuovi strumenti nella propria "cassetta degli attrezzi". A Mondovì si sta sperimentando la conferenza partecipata di servizio nell'ambito della tutela minori. «Tutte le volte nelle famiglie qualcosa "ha fatto clic": dovrebbe diventare un Leps, uno strumento ordinariamente a disposizione dell'équipe», dice Isabella Andrei del Consorzio per i servizi socio assistenziali del Monregalese

di Sara De Carli

Minori e famiglie non sono più quelli di una volta, nemmeno quelli di soli 15 anni fa: per accompagnarli servono nuovi strumenti. Non ha dubbi Isabella Andrei, responsabile del servizio “Supporto a minori e famiglie” del Consorzio per i servizi socio assistenziali del Monregalese. «Oggi il problema che si affaccia con forza è che i genitori portano i figli ai servizi e dicono “ho fatto tutto quello che potevo, adesso pensaci tu”. Non vogliono più vederli, non cercano contatti. Sono genitori molto stanchi, arresi, demotivati, è difficile tirarli dentro… bisogna che anche loro abbiano uno spazio», racconta. 

Nell’ambito del progetto Kintsugi – realizzato nel territorio dell’Asl CN1 grazie a un finanziamento dell’impresa sociale Con i Bambini, con la Cooperativa Armonia come capofila di una ampia rete di partner – il Consorzio per i servizi socio assistenziali del Monregalese e la Cooperativa Animazione Valdocco, insieme agli altre partner di progetto, da due anni stanno sperimentando lo strumento delle Conferenze partecipate di servizio: riunioni di servizio multidisciplinari e multiprofessionali, coordinate e condotte dall’assistente sociale titolare del caso, ma allargate alle persone coinvolte in percorsi di protezione e tutela (gli utenti dei servizi) e alla loro rete naturale.

Il 26 ottobre a Mondovì si è tenuto un momento di rilettura dell’esperienza in corso da parte degli operatori del territorio, con la partecipazione di Francesca Maci e Paola Turroni, due fra le principali esperte di pratiche collaborative e partecipazione nei servizi di cura e tutela. Ne abbiamo parlato su VITA con Massimiliano Ferrua, direttore Ricerca e Sviluppo della Cooperativa Animazione Valdocco, mentre con Paola Turroni e Francesca Rolando abbiamo scoperto la figura del portavoce del minore. Ma qual è il punto di vista del servizio pubblico? «Noi vogliamo assolutamente continuare ad usare la conferenza partecipata di servizio, averla nella nostra cassetta degli attrezzi come uno degli strumenti da usare quando incontriamo una famiglia. Abbiamo visto sul campo che funziona. Anzi, dovrebbe diventare un Leps», dice Andrei.

Paola Turroni, Francesca Maci e Massimiliano Ferrua a Mondovì

Le pratiche collaborative e partecipative nei servizi non sono proprio diffusissime: qual è per il Consorzio il bilancio di questa sperimentazione?

Assolutamente positivo, innanzitutto proprio perché ci ha effettivamente dato la possibilità di sperimentare le Conferenze partecipate di servizio, uno strumento a cui ci siamo avvicinati tante volte ma davanti a cui all’ultimo finora ci siamo sempre fermati.

Vogliamo assolutamente continuare ad usare la conferenza partecipata di servizio, averla nella nostra cassetta degli attrezzi. Abbiamo visto sul campo che funziona. Anzi, dovrebbe diventare un Leps

Isabella Andrei, Consorzio per i servizi socio assistenziali del Monregalese

Perché?

Perché è uno strumento che per sua connotazione è sociosanitario, quindi senza la parte sanitaria non si può fare, sarebbe come se mancasse un braccio. Kintsugi ci ha dato una sponda. Non mi fraintenda, la disponibilità e la volontà c’è sempre stata… il problema sono le risorse, il fatto che gli operatori sono pochissimi. Rispetto alla volontà, tutti gli operatori che sono dentro i servizi sanno perfettamente che abbiamo bisogno di trovare strumenti innovativi per rispondere all’evoluzione dei bisogni: è una cosa fondamentale. La cosa più importante quindi è stata proprio la possibilità di sperimentare un altro strumento per lavorare “con” le famiglie e non “per” le famiglie: questo passaggio ormai è consolidato, ormai da anni i servizi sono orientati al lavoro “con” e non “per” e hanno spostato l’obiettivo dal lavoro con il bambino al lavoro con la famiglia. Questo progetto ha rafforzato tantissimo gli strumenti che abbiamo per farlo.

Se guardiamo in giro per il Paese, però, questo lavorare non solo con il bambino ma anche con la sua famiglia, per creare più rapidamente possibile le condizioni per un suo rientro… non è così scontato.

Però ce lo impone la legislazione. Inoltre abbiamo ormai capito che se si lavora solo mirati sul bambino e non sulla famiglia, il lavoro non ha il riverbero che vorremmo. È un spostamento di ottica che nei servizi è stato ampiamente adottato, così come è stato sdoganato da tempo il lavorare trasparenza con la famiglia, sia che questa arrivi spontaneamente a chiedere una mano sia che esista un provvedimento dell’autorità giudiziaria: anche se le narrazioni sui servizi continuano ad essere altre.

In tutte le conferenze sono accadute cose che non ci aspettavamo: il vicino di casa mai nominato che si dice disponibile a fare qualcosa, l’emergere di una disponibilità inaspettata di qualcuno della famiglia a mettersi in gioco…

Isabella Andrei

La conferenza partecipata di servizio restituisce potere alla famiglia: perché farlo e che cosa ha visto cambiare? 

La famiglia, nella accezione ampia di tutte le figure che sono rilevanti per quel minore, diventa protagonista insieme agli altri attori e questo è un rafforzativo che nella sperimentazione è stato stupefacente. Moltissime volte le famiglie ci hanno stupito perché nelle conferenze – intanto ricordo che alla conferenza si arriva dopo aver fatto tutto un lavoro di preparazione e di mediazione – sono accadute sempre cose che non ci aspettavamo: il vicino di casa mai nominato che si dice disponibile a fare qualcosa, l’emergere di una disponibilità inaspettata di qualcuno della famiglia a mettersi in gioco… Un papà che dice “non ho mai pensato che a mio figlio facesse piacere giocare con me un’ora al giorno, ma adesso che me lo ha detto sono disposto autenticamente a provarci”, per esempio. L’esito della conferenza partecipata è che tutte le cose che vengono dette, siccome sono dette da chi le deve agire, impegnano la famiglia in ciò che ha scelto di fare e poiché se lo sono date loro stesso come obiettivo e non arriva da un terzo, cercano effettivamente di raggiungerlo. I percorsi di attivazione partono più facilmente: non sto dicendo che riescono, magari poi il papà non riesce a giocare tutti i giorni un’ora con il figlio e magari non è nemmeno quello il punto… però si riprende un dialogo, si è più trasparenti nel dire ciò che non si è riusciti e ad essere disponibili a cercare insieme lo strumento. È molto evidente la disponibilità della famiglia a cambiare. Io penso davvero che la conferenza partecipata sia – come diceva la professoressa Maci – uno strumento da utilizzare senza se e senza ma. Non c’è una “famiglia ideale” candidata per la conferenza partecipata: qui a Mondovì l’abbiamo sperimentata in situazioni molto critiche, dove il rientro in famiglia dalla comunità sembrava davvero un sogno: lo sognavamo tutti perché ci rendevamo conto che il legame affettivo c’era, ma allo stesso tempo c’era una carenza di strumenti molto grande, e non parlo di motivi economici, con bambini molto difficili e complessi. Certamente serve il lavoro fatto con il bambino, per fargli spazio, per modificare i suoi comportamenti… ma deve essere un pezzo del lavoro, insieme ad altri: anche le famiglie vanno un po’ educate, perché per alcuni versi oggi delegano all’educatore, lo vedono come un sostegno che permette loro di non mettersi in gioco veramente nel cambiare in prima persona. 

La sala del convegno del 26 ottobre. In prima fila, a sinistra Isabella Andrei e a destra la presidente della cooperativa Armonia, Mitzi Chiotti

Perché usare la conferenza partecipata – e quindi coinvolgere i genitori – anche in casi di maltrattamento?

Lo dicevo prima, perché abbiamo assolutamente bisogno di trovare strumenti innovativi che possano dare risposte all’evoluzione dei bisogni. Noi operatori abbiamo tutti molto chiaro che la comunità per minori continuerà a servire, ma anche le comunità devono sperimentare nuovi modelli, in cui i genitori sono fuori dalla comunità ma anche dentro, se no si rischia la dicotomia del bambino che ha una vita in comunità e una vita nella sua famiglia, che torni a casa una volta al mese o quindici giorni l’anno. Come se fossero due vite. Sarebbe un errore pensare che la conferenza partecipata possa sostituire altri strumenti: non sostituisce né le comunità, né l’affido, né l’affido diurno. Non è sostitutivo ma è uno strumento in più nella cassetta degli attrezzi di noi operatori. Come il programma Pippi, che è diventato un livello essenziale delle prestazioni sociali-Leps, per cui oggi nei servizi dobbiamo lavorare così. A mio giudizio anche la conferenza partecipata dovrebbe diventare un Leps del lavoro con le famiglie, uno strumento da considerare tutte le volte che abbiamo a che fare con famiglie in cui c’è un bambino: uno degli strumenti che devi valutare se usare o meno e se lo escludi ci devono essere delle motivazioni per farlo. In questo modo, facendone un Lesp, vai davvero a modificare la cassetta degli attrezzi degli operatori: assistenti sociali, educatori, psicologi. Perché il punto è che strumenti innovativi esistono, sono stati stra-sperimentati, ma poi non vengono messi a sistema: dire ai servizi che con le famiglie si lavora con la conferenza partecipata a meno che sussistano queste determinate condizioni… come in Pippi, sarebbe davvero un cambiamento importante. 

Sarebbe un errore pensare che la conferenza partecipata possa sostituire altri strumenti: non sostituisce né le comunità, né l’affido, né l’affido diurno. Non è sostitutivo ma è uno strumento in più nella cassetta degli attrezzi di noi operatori

Isabella Andrei

Quali sono gli impatti sugli operatori?

Vedere gli esiti positivi nelle famiglie: è una gratificazione enorme e questo è un lavoro in cui la motivazione è tutto e insieme è la cosa che manca di più. Checché se ne dica, non c’è gratificazione nel mettere un bambino in proiezione, portandolo in comunità. Esiti positivi non vuol dire che tutte le famiglie si siano trasformate e salvate, ma che tutte le volte qualcosa ha fatto clic: avere un ritorno da parte della famiglia, vedere un piccolo cambiamento, crea soddisfazione. Così come l’innovazione dà soddisfazione, porta l’operatore a volersi sperimentare e nella sperimentazione trova nuova linfa per il proprio lavoro e per motivarsi: ogni volta che uno strumento ci permette di vedere un lato diverso delle situazioni, di una visione laterale delle cose… questo motiva. E la motivazione è la spinta che porta l’operatore a lavorare meglio e al cambiamento. Lo accennavo anche prima, tutti gli operatori affermano che la società è cambiata, che bisognerebbe fare altro: ma cosa? Cosa offro alla famiglia una volta che ho capito che quello che facevo ieri, oggi non funziona più? Questo è frustrante. Quando invece vedo che con questo strumento le cose vanno bene, “faccio clic” anche io come operatore. 

Tutti gli operatori affermano che la società è cambiata, che bisognerebbe fare altro: ma cosa? Cosa offro alla famiglia una volta che ho capito che quello che facevo ieri, oggi non funziona più? Questo è frustrante.

Isabella Andrei

Quando dice che la società è cambiata, cosa significa dall’osservatorio di chi da tanti anni lavora nei servizi per la famiglia e la tutela minori?

Oggi il problema che abbiamo è che i genitori portano i figli ai servizi e dicono “ho fatto tutto quello che potevo, adesso pensaci tu”. Non vogliono più vederli, non cercano contatti… è complicato da spiegare all’esterno il fatto che siamo sempre più spesso noi a chiamare i genitori per raccontargli come stanno i figli in comunità, perché loro non ce lo chiedono. Che li chiami e non rispondono al telefono. Che non chiedono “che cosa devo fare per far sì che mio figlio possa tornare a casa”. 

Il pomeriggio di lavoro con gli operatori

Sono diversi i ragazzini e ciò che fanno o sono diversi i genitori?

Un po’ sono diversi i ragazzini, che mediamente sono degli sconosciuti ai loro genitori. E sono diversi i genitori, che vivono per lavorare. Non c’è più il genitore vulnerabile, vulnerabili sono potenzialmente tutti, non c’è più il povero e il ricco: ci sono tanti genitori molto riconosciuti e stimati dal punto di vista professionale, con ragazzini che fin da piccoli hanno manifestato un carattere diciamo così determinato, che non vanno al servizio sociale perché il servizio è fortemente connotato dalla povertà e disagio ma che in casa, da soli, non hanno gli strumenti relazionali. Magari in casa con questo ragazzino difficile si struttura una relazione per cui vince il più forte, ma ormai la legge del “più forte”, del dire “io sono tuo padre, ho deciso io e tu fai questo e quello”, non funziona più già in prima media. Magari quel ragazzino smette di andare a scuola, perché di certo non sente il “devo andarci perché lo dicono i genitori”. Escono, non dicono dove vanno, non tornano a dormire. Arrivano ragazzini con impulsi suicidi molto manifesti – adesso i ragazzi sono molto espliciti su questo, se hanno pensieri suicidi lo dicono. I maschi diventano aggressivi e spaccano tutto, le ragazze si tagliano. Un altro tema su cui i genitori vanno in tilt è quello dell’identità sessuale, di questa “fluidità sessuale” che i ragazzi esplicitano, magari è passeggere e non porterà ad un percorso di transizione ma in cui i ragazzi hanno bisogno di essere riconosciuti. In tutte queste situazioni i genitori finché possono negano, poi fanno tutta una serie di cose più o meno da soli e quando arrivano a non farcela più bussano alle porte del servizio dicendo “Io ho fatto tutto quello che potevo, adesso fate voi”. E chiudono, dicono basta. Il ragazzino si sente abbandonato dai suoi stessi genitori, i genitori sono così stanchi che non si fidano né di loro figlio né dei servizi: si sentono incapaci, falliti, attivano meccanismi espulsivi fortissimi. È molto complicato ricostruire delle relazioni.

I genitori bussano al servizio dicendo “Ho fatto tutto quello che potevo, adesso fate voi”. E chiudono. Il ragazzino si sente abbandonato dai suoi stessi genitori, loro si sentono dei falliti e attivano meccanismi espulsivi fortissimi. È molto complicato ricostruire

Isabella Andrei

Avete sperimentato la conferenza partecipata anche in queste situazioni?

No, ma bisognerà provare. È uno degli strumenti da mettere in campo, perché i tempi dei genitori sono strettissimi quando arrivano così. Sono genitori molto arresi, demotivati, è difficile tirarli dentro… bisogna che anche loro abbiano uno spazio, riconoscergli che è vero che hanno fatto tutto quello che potevate ma allo stesso tempo dire che si può ancora provare a ragionare su cosa può essere utile a tutti, per fare una vita in cui genitori e figli abbiano relazioni senza soffrire. Quindici anni fa impensabile, oggi è così. 

Dopo il progetto Kintsugi e la sperimentazione, che ne sarà a Mondovì dello strumento della conferenza partecipata di servizio?

Noi vogliamo assolutamente continuare ad usarlo, averlo nella nostra cassetta degli attrezzi come uno degli strumenti da usare e da pensare rispetto alla famiglia. Anche perché lavorare con famiglie che sono più compliant, che non sbattono le porte, fa bene a tutti. Certamente sarà uno strumento che tireremo fuori tutte le volte che incontreremo una famiglia, decidendo di volta in volta se usarlo o meno. O forse, meglio, non se ma quando usarlo, se proporlo al momento della presa in carico o più avanti. Ma abbiamo visto sul campo che funziona. 

Foto di Fabio Ferrero


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