Scenari

Nella rivoluzione Ai con le start-up cooperative

L'esplosione dell'intelligenza artificiale ci porta rapidamente verso la quarta rivoluzione industriale. Per questo, dice il vicepresidente di Fondazione Golinelli, serve una cabina di regia nazionale, inter-ministeriale, coinvolgendo la società nelle sue varie articolazioni, le imprese, il mondo educativo. E per trattenere i talenti propone di creare nuovo lavoro col modello mutualistico: esseri umani al centro, per fare scelte di vita con approccio solidaristico

di Antonio Danieli *

Adue mesi di distanza dall’approvazione dell’AI Act, il nuovo regolamento sull’intelligenza artificiale da parte dell’Ue, qual è la situazione in cui ci troviamo in Italia?

Permettetemi di ricordare alcuni dati sistemici: abbandono scolastico 15/16 anni, all’11-12%; dispersione implicita (diplomati che hanno competenze in uscita al livello di terza media) al 9-10 %; competenze Invalsi (media nazionale valori al 56 %, dietro alla media Eu: nord est e nord-ovest al 60-65 %); laurea o titolo di studio terziario tra i 30 ed i 34 anni, al 27%; abbandono universitario al primo anno al 7,3 % (e tasso di completamento dell’istruzione universitaria attorno al 55% ); Neet nella fascia 15-29 anni al 23,4%; prospettive della denatalità a 5 anni: passaggio già in corso da 8,6 milioni a 8,2 milioni studenti delle scuole, stimato poi in riduzione ulteriore a 7 milioni entro i prossimi 20 anni; fuga dei cervelli: 400mila negli ultimi 10 anni (si stima che il valore reale sia il triplo), e per ognuno di loro il Paese investe mediamente 117mila euro in educazione-formazione; disagio psicologico (vedi per esempio fenomeno degli hikikomori) e fascia di povertà delle famiglie italiane che si avvicina al 20-25 % (24% tra 15 e 25 anni a rischio povertà, e 14% under 18 povertà assoluta).

Antonio Danieli

Competenze digitali di base

A tutto questo, tornando al perimetro più stringente del dibattito odierno, cioè il tema del “Digitale”, “si aggiunge che la quota di popolazione con competenze digitali almeno di base rimane stabile al 46% e che il mismatch tra domanda e offerta di professionisti Ict si dimensiona oltre le 100mila posizioni mancanti, configurando una carenza di sistema da superare e con un trend preoccupante relativo alle competenze delle fasce giovanili. Infatti, “il dato della popolazione della fascia 16-19 che è peggiorato di circa tre punti, ed è adesso del 55,9%”.

I numeri spesso risultano ostici da digerire ma è necessario talvolta ricordarli, per chiedersi cosa sia particolarmente urgente fare in concreto, ora, in questo contesto, consapevoli che questa fotografia giunge in un momento oggi particolarmente delicato di passaggio dalla fase 2010-2022, terminata con la pandemia, a una nuova fase per i prossimi dieci-dodici anni. Con la complicazione che, a cavallo degli anni 2020, l’avvento recente, della esplosione della AI, ha poi marcato il passaggio al quarto stadio della terza rivoluzione industriale, in cui ci troviamo ora, segnando definitivamente il salto verso la quarta rivoluzione industriale in atto.

Siamo consapevoli che i prossimi tre anni cambieranno il mondo, e anche il nostro Paese. E, come sempre, occorre trasformare le minacce in opportunità.

I tre pilastri

Formazione, orientamento e innovazione sono sempre i tre pilastri del cambiamento in positivo, con il lavoro e l’autorealizzazione delle persone come obiettivi ultimi sullo sfondo.  

Formazione, orientamento e startup (declinazione concreta dell’innovazione) sono riposte fattive ai grandi sprechi, ai due più grossi attuali (a parte il tema ambientale): lo spreco del nostro capitale umano, i nostri giovani che si perdono prima di arrivare al mondo del lavoro (si pensi a tutti i dati riportati in precedenza), e lo spreco derivante dall’eccellenza della ricerca, che raggiungiamo in diversi settori, ma che – dopo tanti investimenti e fatiche – non “ha la giusta messa a terra” perché in Italia fatichiamo ancora troppo con il trasferimento tecnologico.

L’esperienza ultra decennale sul campo della Fondazione Golinelli porta a poter suggerire in questo momento, sulla base di una osservazione empirica dal basso, alcuni spunti per il dibattito nazionale rispetto alle tre parole chiave precedenti.

Formazione

È appurato da tempo che il “Digitale”, al di là della radice etimologica della parola, non è solo tecnica, ma concerne molto l’umanesimo.

Innanzitutto dunque il primo invito è quello, sin dalla scuola, di introdurre ad adottare il giusto framework mentale: e questo sarà ancora più vero con l’Intelligenza artificiale.

Stiamo parlando di un qualcosa che va molto al di là della pura tecnologia. E questo va tenuto presente nelle risposte educative e formative che possono solo essere complesse, multidisciplinari, capillari e di prossimità, il più possibile adattive ai contesti, seppur nel rispetto del framework ampio più condiviso. Questo vale già per i principali riferimenti Europei per le competenze digitali: digiComp, digiCompEdu e digiCompOrg, all’avanguardia a livello internazionale.

Documenti in cui si parla molto di contenuti umanistici, di spirito critico, di multidisciplinarietà, di elevate competenze personali, di approccio dell’individuo culturalmente elevato e dall’articolazione collettiva dell’apprendimento. 

Anche formalmente, alla base del digitale vi è un linguaggio umano: sintesi di parole e costrutti logici, dati umani, emozioni umane, intenzioni umane. La tecnologia non è fine ma mezzo, e riflette la società. Per questo i framework di riferimento ci parlano di tante competenze umane, spirito critico, gestione dell’imprevedibilità, cooperabilità, solidarietà, etc.

Opificio Golinelli, Bologna

L’AI Act introdurrà nuove ulteriori prospettive che dovranno essere analizzate e digerite molto rapidamente. Corre d’obbligo osservare che, almeno dal 2012, molte risorse sono destinate dai Governi che si sono succeduti a questa rivoluzione digitale, e siamo ora al centro delle azioni del Pnrr; è però fondamentale ora che questo tipo di dibattito divenga centrale nella società. Ora è necessario già pensare a dopo il Pnrr. E questa è una sfida per la scuola, per l’impresa, per la ricerca, per il welfare, per la sanità, per le istituzioni, per tutta la comunità nazionale, anche le fondazioni il Terzo Settore, le comunità locali e famiglie. Si tratta di una operazione comunitaria, nazionale e di sistema. Perché nessuno può farcela da solo.

Orientamento

Come detto, abbiamo elevati tassi di abbandono scolastico, dispersione, Neet, abbandono universitario, disagio sociale, povertà educativa e, allo stesso tempo, abbiamo decine di migliaia di posti di lavoro vacanti, non solo per ingegneri: i futuri costi sociali di tutto ciò saranno insostenibili. Che cosa serve ora?

Una cabina di regia nazionale inter-ministeriale che coinvolga anche i corpi intermedi, le parti sociali, le associazioni di categoria, le istituzioni, le imprese e le scuole e le università.

E che nessuno dica più “non è compito mio”, “non è il mio mestiere”, perché altrimenti le università rischiano, talvolta, di fare marketing in ingresso, più che orientamento, per incentivare le iscrizioni (a poi gli studenti abbandonano in massa al primo anno) e le imprese – offrendo lavoro qualificato necessario per continuare a generare valore, doveroso ricordarlo a scanso di fraintendimenti – si contendono i pochi migliori talenti formati con competenze spendibili, ma noi tutti – come sistema Paese – continuiamo a perdere per strada decine di migliaia di giovani che, disorientati, abbandonano ad un certo punto i loro percorsi formativi per imboccare la strada del “non lavoro e non studio”, che non ci possiamo più permettere in tali dimensioni (a serio rischio il modello di welfare).

Occorre investire sempre di più in percorsi integrati di orientamento a livello nazionale, a ogni età, giovani e più adulti, dalle scuole primarie alle secondarie, alle università fino al potenziamento delle politiche attive per l’ingresso nel mondo del lavoro ed il sostegno alla imprenditorialità, con il soggetto singolo al centro: i ragazzi e le famiglie devono fare le scelte migliori per il loro bene (non possono decidere le scuole, o solo gli insegnanti, per loro); e tali politiche devono essere implementate in maniera coordinata per tutto il percorso educativo, formativo e professionale. Occorrono competenze che servono alle imprese esistenti, occorre riconvertire le competenze e mantenerle aggiornate, anche con la formazione continua e permanente, ma occorre stimolare e generare anche nuovo lavoro, nuove professioni e nuove imprese e startup, ovviamente non lasciando indietro nessuno. Questo con l’avvento del digitale e ora della AI, ha ovviamente ancora più valenza se si pensa all’allargamento ulteriore della forbice potenziale della disuguaglianza sociale.

Startup (e talenti)

Spreco di eccellenza: da un lato i cosiddetti talenti, con capacità eccellenti (con, ricordo nuovamente, investimento del Paese di 117mila euro per ogni studente formato), vanno all’estero dove trovano condizioni più consone alle loro aspirazioni, dall’altro il know-how condensato nei tanti brevetti, in virtù dei grandi risultati della ricerca italiana, giace nei cassetti.

Una proposta possibile può essere quella di creare sempre più incentivi per trattenere i talenti e le eccellenze, indirizzandoli sempre di più in maniera specifica nelle startup (sia nel campo scientifico, sia nel campo digitale e tecnologico).

Gli ultimi dieci/dodici anni, anno visto il contesto dell’innovazione e del venture capital italiano maturare soprattutto all’impronta di modelli finanziari importati dall’estero tout court, e non sempre pienamente adatti a noi; noi abbiamo bisogno, perché quello sappiamo esprimere, di un approccio più industriale alle startup, che preferirei chiamare d’ora in poi “giovani aziende”, oppure “giovani piccole e medie imprese innovative”; occorre una maggior attitudine orientata al lavoro e meno all’equity.

Forse occorrerebbe meno attenzione prestata alla definizione dei valori pre-money esorbitanti nei deal, che nessuno sa mai calcolare davvero bene, e che spesso sono gonfiati, ma a molti è andata bene fino a che, giunti in tempi di guerre diffuse, inflazione e costo del denaro (ancora) alto, la situazione diventa problematica.

Le startup sono vettore di innovazione, e ne servono di più perché possono catalizzare lavoro eccellente, di qualità, e trattenerlo, se incentivato adeguatamente: sappiamo che le startup hanno bisogno di capitali e sono costrette a cedere ad investitori quote di equity talvolta in momenti non opportuni per il corretto sviluppo della azienda: ma se il sistema desse loro vantaggi in altra maniera, dunque non solo mediante indirette decontribuzioni al lato finanziario, ma con decontribuzioni dirette dal lato del costo del lavoro? Le startup sono “cool e sexy” per trattenere i giovani talenti o i lavoratori eccellenti in nuove imprese e sono anche un vettore di innovazione per rinnovare le imprese esistenti nella logica della open innovation, farle prosperare e garantire il mantenimento di posti di lavoro. Accorpare o acquisire una startup di fatto significa incorporare velocemente innovazione e ricerca sviluppo, con elevato de-risking a monte. Dunque una proposta possibile è quella di ridurre il cuneo con incentivi al lavoro qualificato direttamente per le startup per le assunzioni di talenti da trattenere, e non concentrarsi solo sulle decontribuzioni agli investitori di capitale di rischio, lavorando così sul ribilanciamento di una prospettiva incentrata sul lavoro rispetto a quella dell’investimento dei capitali.

Detto tutto ciò, il modello cooperativo è molto portato nei confronti dell’idea di creare startup e può rappresentare la consacrazione di modello italiano originale di capacità di fare impresa, sostenibile e socialmente responsabile, con ampio impatto e ridistribuzione solidaristica del valore aggiunto, con l’aiuto ulteriore del digitale e delle nuove tecnologie.

Modelli mutualistici, con valori incentrati sul lavoro

Creare nuovo lavoro e nuove imprese, con essere umani al centro per fare le loro scelte di vita con approccio solidaristico, ha molto a che fare con il disegno identitario della cooperazione Italiana, con i modelli mutualistici e con valori incentrati sul lavoro, aprendosi al contempo ai mercati internazionali e con l’impiego di tecnologie digitali avanzata a sottenderne l’importanza anche sociale delle aspirazioni.

Inoltre, il mondo cooperativo può godere di un modello finanziario alternativo basato anche sul lavoro e sul credito, dunque non solo incentrato sulla finanza improntata ai capitali di rischio ma può contare su di un sistema diffuso, prossimo e capillare sul territorio di credito cooperativo, capace di essere più paziente per definizione dei fondi di venture capital.

Invitiamo sempre i giovani aspiranti nuovi imprenditori a guardare il modello cooperativo, come peraltro feci io più di vent’anni fa, uscito dalla Sda Bocconi: facendo sintesi tra il pensiero di professori come Borgonovi, Invernizzi, Iudica, Mazzoleni e Fiorentini, per citarne alcuni. Fondai la mia startup, anche se allora non si chiamavano così e, guarda caso, fu una impresa cooperativa sociale. Ricordo quel momento come una tappa fondamentale del percorso che poi mi ha consentito di essere accolto alla Fondazione Golinelli.

*vicepresidente e direttore generale Fondazione Marino Golinelli

La foto in apertura è di Foto di Alan De La Cruz su Unsplash, le altre della Fondazione Golinelli.

Questo articolo è tratto dall’intervento ieri all’evento  EuropaDigitale.Coop – Idee Cooperative per l’Europa Digitale su “Orientamento e innovazione come vettori cambiamento nel mondo del lavoro.”


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