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Femminicidi

Per fermare la violenza sulle donne non basta la legge: bisogna cambiare i modelli educativi

Un'altra donna uccisa per mano dell'uomo che dichiarava di amarla. Infliggere la morte è un atto estremo di potere. Mariangela Zanni, presidente del Centro veneto progetti donna – Auser, spiega a VITA le ragioni culturali che sono alla base della violenza sulle donne

di Rossana Certini

Ogni speranza è persa. È di Giulia Cecchettin il corpo recuperato dalle forze dell’ordine, a Pordenone in un canalone tra il lago di Barcis e Piancavallo. La ventiduenne era scomparsa da Vigonovo (Ve) lo scorso 11 novembre insieme all’ex fidanzato Filippo Turetta.

«Una notizia tragica che avremmo voluto non ricevere ma che purtroppo temevamo», spiega Mariangela Zanni, presidente del Centro veneto progetti donna – Auser, «la giovane età dei due ragazzi non ci stupisce perché nei primi dieci mesi del 2022 sono state 174 le ragazze, tra i 18 e i 30 anni, che si sono rivolte ai nostri centri. Parliamo del 21,1% sul totale delle donne che hanno chiesto il nostro aiuto. Un dato significativo che ci mostra come la violenza sia un fenomeno trasversale rispetto all’età delle persone coinvolte, al loro grado di cultura e allo stato sociale. Forse l’unica differenza sta nel fatto che le ragazze più giovani chiedono aiuto più delle donne adulte».

Il Centro veneto progetti donna – Auser gestisce in tutta la regione cinque centri anti violenza, otto sportelli territoriali e cinque case rifugio e dal 1990 ha accolto oltre 11.530 donne, di cui 1.127 solo nel 2022.

«Il contesto culturale in cui cresciamo, purtroppo, ancora considera il genere femminile inferiore rispetto a quello maschile in tutti gli aspetti della vita sia pubblici che privati», prosegue, «i casi di femminicidio sono la punta di un iceberg, di una problematica culturale che riguarda milioni di donne. È una situazione sicuramente riconosciuta a livello giuridico, perché i reati sono perseguiti, ma non abbastanza a livello sociale. È più facile attenzionare i comportamenti che costituiscono un reato, più difficile è farlo con quelli che non sfociano in gesti violenti come la gelosia, il controllo e il possesso che devono comunque far riflettere e mettere in guardia».

La donna coinvolta nella relazione spesso è fuorviata da altre componenti come l’aspetto emotivo e la convinzione di poter cambiare l’altro perché lo si conosce in tutte le sfaccettature del carattere. Quell’uomo è un familiare, con lui si ha una relazione di fiducia e questo rende difficile lasciarlo, anche, se si nutrono dubbi sui comportamenti.

«In questo contesto è fondamentale che tutti gli uomini si sentano responsabilizzati», prosegue la presidente Auser, «è arrivato il momento che la parte maschile della società abbia consapevolezza di quello che sta accadendo e condanni gli atti di violenza più o meno espliciti. Anche un complimento rivolto a una donna sconosciuta per strada è un atto deplorevole ma non ho sentito molti uomini giudicarlo tale. Le donne non educano i figli a essere violenti ma, purtroppo, quando i ragazzi crescono vedono una società che ha il potere tutto in mano agli uomini. Questo è il grosso problema».

D’altro canto le donne inconsciamente, nel vestirsi, nel parlare e nel comportarsi, continuano a rispondere a un desiderio maschile perché, in secoli di società patriarcale, hanno perso l’abitudine a seguire i propri desideri.

«Sarebbe utile che le donne avviassero un percorso di consapevolezza per comprendere che hanno diritti e libertà di scelta», prosegue Zanni, «devono allenarsi a scegliere per se stesse e non in funzione di un’altra persona. È importante educare le bambine fin dai primi anni alla consapevolezza del proprio potere decisionale perché è l’unico modo per farle diventare donne forti e indipendenti. Certo il rischio, nella nostra società, è quello di pagare la propria autodeterminazione con l’isolamento, si diventa diverse da quello che il modello vuole. Oggi, purtroppo, cresciamo ancora le bambine con delle regole che limitano l’agire femminile. Alle donne si dice cosa possono fare, cosa no e fino a che punto possono arrivare. A una bambina è più facile che venga detto di non arrampicarsi su un albero per evitare di farsi male mentre un bambino, per lo stesso gesto, viene lodato per la sua forza».

Modelli culturali all’apparenza innocui che rendono poi difficile per una donna andare via da una situazione che la limita perché pensa di non poter essere libera di scegliere.

«Tendiamo», conclude Mariangela Zanni, «a giustificare i comportamenti dell’uomo. Anche nelle interviste di questi giorni abbiamo ascoltato più volte parlare di Filippo come di un ragazzo geloso ma che non sarebbe mai potuto arrivare a un gesto violento. Ecco, già giustificare l’essere gelosi non va bene perché la possessività è un atto di potere».

Foto: Filippo Ciappi/LaPresse


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