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Per l’autonomia differenziata era già tutto in Costituzione

Il Ddl Calderoli per non generare situazioni di diseguaglianza sociale necessita della definizione dei Lep che, però, devono essere considerati un mezzo e non un fine. «L’equità distributiva non può essere agganciata a un costo prestazionale», spiega Tiziano Vecchiato presidente della Fondazione Zancan e precisa che già «la Costituzione riconosce e promuove le autonomie locali»

di Rossana Certini

A pochi giorni dall’approvazione in Senato del Ddl Calderoli sull’autonomia differenziale appare ormai chiaro che un ruolo importante affinché non si verifichino diseguaglianze di diritti tra i cittadini sarà giocato dalla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni-Lep il cui iter di definizione dovrebbe concludersi entro un anno.

«Strano che la nuova norma si prenda altro tempo per definirli, dopo che si è studiato, speso, dilazionato, utilizzando il termine “Lep” come un totem non discutibile», dice Tiziano Vecchiato, presidente della Fondazione Zancan di Padova.

Non crede, presidente, che i Lep potranno garantire un rinnovamento sostanziale delle risposte di welfare?

Non siamo nati oggi, è da più di vent’anni che si parla di Lep, Lea, Liveas e Leps. Il Lep è un mezzo, non va confuso con il fine. L’equità distributiva non può essere agganciata a un costo prestazionale. Chi ci ha creduto non si è chiesto: perché limitarsi a standardizzare l’input (il suo costo) senza capire come governare equamente l’output (le risposte) e soprattutto come garantire equità di outcome, cioè soluzioni efficaci per le persone? È prevalsa l’ostinazione di chi confonde le prestazioni con le soluzioni e continua a farlo, senza chiedersi chi pagherà i costi sociali del prestazionismo e di una inconcludente ricerca.

Ma allora quali potrebbero essere le criticità dell’autonomia per il settore sanitario, sociosanitario e sociale?

Riguardano le crescenti disuguaglianze tra Nord e Sud ma anche all’interno delle stesse regioni, con differenziali che spesso riproducono i minimi del Sud e i massimi del Nord. È quindi una questione di sistemi regionali e all’interno di ogni regione. L’autonomia differenziata potrà bastare per affrontare problemi che sono evidenti a chi si occupa di risposte di welfare sanitarie, sociali, sociosanitarie? Gli attuali differenziali di capacità territoriale vanno in rotta di collisione con il fondamento costituzionale della “Repubblica unica e indivisibile” (art. 5) cioè chiamata a tutelare il bilanciamento tra diritti e doveri di ogni persona in ogni territorio. Per questo la Costituzione “riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principî ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento” (art. 5). Ma se guardiamo alla assistenza sociale, le autonomie locali non hanno saputo e voluto realizzare gli Ambiti territoriali sociali – Ats passando da quasi 8mila gestioni comunali polverizzate nei territori a circa 600 gestioni aggregate in regime di Ats nel Paese. Se guardiamo all’assistenza sanitaria, i sistemi regionali di welfare assomigliano a quello vecchio mutualistico che la 833/78 aveva superato. Il risultato è, infatti, una sanità basata su diritti georeferenziati, a fasatura variabile, in base alla residenza delle persone.

Lei dunque ravvede un rischio di aumentare i divari tra le regioni?

Più che un rischio è già nei fatti e nella recessione di welfare che stiamo vivendo. Mette in discussione i sistemi di fiducia necessari per la vita sociale e democratica. Si tratta di una deriva che espone il nostro Paese a difficoltà non indifferenti. Per l’autonomia “differenziata” non basta una legge senza una ripartenza dalla Costituzione, che aveva immaginato un Paese capace di affrontare i problemi nei territori con uno spirito di leale collaborazione istituzionale, valorizzando la sussidiarietà (art. 118). Questa prospettiva non è una novità, già il Dpr 616/77 di decentramento amministrativo invitava a investire in questa direzione con i servizi sociali. Dopo decenni, il giudizio non è incoraggiante perché i risultati sono perdenti. Chi si fiderebbe di chi non è stato capace di fare quello che adesso chiede di fare? Lascio al lettore la risposta.

Servono garanzie?

Il problema delle garanzie non è di oggi. Più di trent’anni fa si è sentito il bisogno di inserire nel nostro ordinamento la figura dei “Garanti”, ad esempio per la tutela dei minori necessaria per prevenire e denunciare i malfunzionamenti istituzionali che possono diventare veri e propri maltrattamenti istituzionali. Lo stesso si è fatto introducendo forme di “autorità indipendenti” per garantire la concorrenza, l’informazione, il credito e altri bilanciamenti fondamentali per il buon funzionamento di uno stato democratico. Alle autorità indipendenti sono state affidate responsabilità “preventive e successive”. Servono garanzie per prevenire scelte presuntuose di eventuali richiedenti inadeguati e per sanzionare gli “autonomi differenziati” che non hanno dato i risultati promessi. È ragionevole pensare che chi chiede più autonomia accetterà di sottoporsi “a stress test preventivi di capacità”, per non essere bocciati al primo esame. Dovrà accettare che la “committenza sociale” dei cittadini venga rassicurata all’interno delle regole costituzionali. Non va poi confusa la committenza elettorale con la quella sociale, destinata a ricevere le risposte promesse. Quella elettorale è disposta a condividere sogni impossibili, quella sociale conosce, invece, la quotidiana impossibilità di ottenere risposte necessarie per bisogno e per diritto finanziate dalla solidarietà fiscale.

Come si può fare, allora, per contrastare i rischi?

A 75 anni dalla Costituzione abbiamo imparato che i traguardi condivisi dai padri costituenti non sono parole ma fatti da realizzare e infrastrutture di cittadinanza da costruire per garantire risposte di rilevante interesse sociale. Questa regola vale per ogni livello istituzionale. Ad esempio, se il livello centrale non riesce a garantire il diritto alla mobilità, non dando un passaporto a chi ne ha bisogno, può affidare questo compito a chi è più capace di farlo presto e bene. Non è quindi una questione di altezza del livello istituzionale. La Costituzione (artt. 2 e 3 ) ne è convita, perché crede nella necessità di tutelare la committenza sociale a partire dai più deboli. La Fondazione Zancan ha titolato il suo rapporto 2023 sulla lotta alla povertà e alle disuguaglianze Una costituente per un nuovo welfare: non è un invito a cambiare la Costituzione ma ad attuarla oggi, imparando dagli errori e dalle criticità che stiamo vivendo. La legge sulla autonomia differenziata non potrà inoltre essere utilizzata come una ritorsione contro il livello superiore ma per meglio solidarizzare tra livelli istituzionali.

Come allora definire oggi la prospettiva dell’autonomia differenziata?

A partire da quello che non deve essere. Non può essere un “selfie
politico e istituzionale” per ottenere vantaggi elettorali. Nei lavori della “costituente di welfare” che propone la Fondazione Zancan, la rilettura della Costituzione aiuta giuristi, economisti, esperti di welfare a dirsi la verità, a chiamare le cose con il loro nome, a trovare il giusto equilibrio in un sistema istituzionale capace di gestire titolarità politiche e responsabilità gestionali a vantaggio delle persone e delle comunità. È uno sforzo necessario con verifiche preventive e indipendenti di capacità, cioè credibili, ricordandoci che ai tempi della Costituzione la socialità era immaginata come composizione duale, tra pubblico e privato. Negli ultimi quarant’anni, il quadro si è arricchito dalla prospettiva del privato sociale, che antepone gli interessi generali a quelli privatistici. È ora il momento di investire nei potenziali del “pubblico sociale”, cioè un sistema istituzionale composto da pubblico politico, pubblico sociale, privato sociale, privato imprenditoriale, scoprendo che solo insieme potranno condividere bilanci veritieri di socialità e giustizia inclusiva.


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