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Lavoro sociale

Basta scontri sull’educatore professionale o i lavoratori fuggiranno

La valutazione del nuovo decreto sul profilo dell'educatore professionale non è scontata. Perciò è utile ripercorrere la storia di questa professione e degli atti normativi che fino ad oggi l'hanno riguardata. E per il prossimo futuro? Questo l'appello di Fabio Ruta: «Guardiamo avanti e lasciamoci alle spalle un periodo di divisione. La via dello scontro e della incomprensione spingerebbe, come se ce ne fosse bisogno, tante persone verso la fuga da questo lavoro»

di Fabio Ruta

educatrici in piazza

Con la definitiva approvazione da parte del Senato del ddl 788 che istituisce l’ordine professionale delle professioni pedagogiche ed educative, si riattiva il dibattito relativo a queste figure, al loro riconoscimento giuridico e normativo e – di riflesso – alla loro importanza e funzione nella complicata società odierna. Se l’istituzione dell’ordine professionale e del relativo albo per la figura del pedagogista è una novità attesa da tempo (e da tempo invocata da alcune associazioni di categoria), la analoga soluzione per gli educatori professionali socio pedagogici deriva da una spinta più recente e da un percorso più articolato. Inoltre, pur operando negli stessi ambiti ed appartenendo alla stessa “famiglia” e “ceppo epistemologico”, le due figure si distinguono spesso per tipologia contrattuale: con un regime consulenziale e libero-professionale molto più radicato tra i pedagogisti rispetto agli educatori, che sono invece in gran numero lavoratori dipendenti, subordinati, in quote consistenti alle dipendenze di cooperative sociali e con salari generalmente bassi. Conviene dunque fare ora qualche cenno alla storia formativa e normativa che riguarda gli educatori professionali in Italia.

Una ricostruzione storica 

Quella che riguarda la formazione ed il riconoscimento contrattuale e giuridico degli educatori professionali in Italia è una storia assai complessa. Noi sappiamo che prima ancora di venire nominata e definita da confini, percorsi e processi formativi la figura degli educatori in Italia ha origine a cavallo tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70, laddove sullo sfondo di tanti cambiamenti politici e socioculturali si avverte il passaggio di un sistema di cura da qualcosa di strettamente collegato ad aspetti caritatevoli di stampo religioso (oppure fortemente medicalizzanti e non di rado disposti in schemi binari differenziali, di “controllo sociale”, ben descritti da Michel Foucault), ad una visione di welfare che includesse maggiormente la società, gli aspetti comunitari, i vincoli solidaristici, i diritti umani. 

Gli “educatori”, è bene dirlo, esistevano già in precedenza (l’educazione in senso esteso coincide con la stessa storia della umanità) e sin dalla fine anni ‘50 si costituiscono le primissime associazioni. Essi operavano soprattutto in strutture religiose residenziali e nei confronti della gioventù “disadattata”, le caratteristiche professionali erano spesso ancora adombrate dall’humus culturale paternalistico, correttivo o spontaneistico (riassumibile in molte situazioni con la suggestione della “vocazione”, della “missione”). Si iniziava però già allora a percepire quanto questo “schema” non fosse più rispondente all’evoluzione dei tempi. Si manifestava il bisogno di nuove pratiche legate alla “relazione” di cura. Sorgeva dunque materialmente prima il “bisogno” e poi processualmente una figura professionale volta a “soddisfarlo”. 

Il tornante degli anni ‘70 fu decisivo. Sono gli anni della riforma sanitaria, della legge Basaglia, della riforma dell’ordinamento penitenziario, del diritto di famiglia, del riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare e di tanti altri interventi che cambiano profondamente la nostra società. In quella temperie storica ed in quel clima di rinnovamento politico si apre un dibattito culturale che evolverà nel decennio successivo, soprattutto nella seconda metà degli anni ‘80. Il perno della discussione ruota allora su quale forma debba avere questa figura professionale emergente (ed ancora senza nome), figura che andava a definirsi e strutturarsi in forme diverse anche in altri paesi europei. Risulta difficile innanzitutto definire il campo di intervento di questi operatori. Si tratta di una figura sola? Sono più figure? Queste domande si pongono poiché lo spettro di intervento è immenso: talmente polivalente da coprire un territorio che potenzialmente si estende da settori tradizionali (come i percorsi di crescita dei minori in ambito scolastico ed extrascolastico) sino a nuove forme di educazione degli adulti. Molte riflessioni vengono stimolate da problematiche emergenti all’epoca come le tossicodipendenze, l’esplosione dell’Hiv, la salute mentale (con il progressivo superamento del custodialismo e del retaggio manicomiale dei decenni precedenti e l’affermarsi di una presa in carico collettiva sociale del tema della follia), i nuovi flussi migratori (che non potevano essere gestiti esclusivamente in un’ottica securitaria esigendo politiche di integrazione culturale). 

Quindi il dibattito che si pone è come definire questa nuova e polivalente figura chiamata ad occuparsi (interagendo con molte altre) di questi problemi. Educatore sociale? Operatore pedagogico? Dove incanalare la sua formazione? Dovrà questa essere una formazione unitaria? O una formazione a “spicchi” (magari con una base comune e successive specializzazioni)? Oppure proprio i settori di intervento potrebbero determinare numero e tipologia delle figure professionali da formare e disciplinare? Il dibattito – qui molto semplificato – parte in quegli anni e si è stratificato sino ad oggi.

I tentativi di normare il profilo professionale

Uno dei primi tentativi di normare a livello legislativo la figura dell’educatore fu il decreto Degan nell’84 poi annullato per una sentenza del Consiglio di Stato. Prima ancora che arrivi una linea nazionale (tra l’altro iniziano in quel periodo le prime commissioni d’indagine del ministero dell’interno su queste figure) agiscono le regioni, che si trovano nell’urgenza di dover rispondere a domande pressanti che provengono dal cuore pulsante dei loro territori, che evocano e richiedono “nuovi” interventi professionali. Le regioni all’epoca si muovono un po’ random, ciascuna per i fatti propri. Alcune realtà partoriscono esperienze e laboratori più fortunati, altre meno. Fioriscono corsi regionali molto differenti da territorio a territorio e senza un’organizzazione precisa. Nel tempo i corsi regionali matureranno un modello formativo apprezzabile in particolare per il loro rapporto stretto con i servizi sociali, assistenziali, sociosanitari dei territori. 

A un certo punto, siamo più o meno nel 1989, nasce e si cristallizza il doppio binario formativo. Con un’adunata del Consiglio Universitario Nazionale nel 1989, si accetta e si approva la riforma del corso di laurea in pedagogia, che sboccerà nella nuova “formula” delle scienze dell’educazione con il primo collocamento della formazione di educatore extrascolastico in ambito accademico. Quindi nasce lì l’educatore di stampo umanistico (se trascuriamo precedenti nell’ambito della formazione dell’educatore penitenziario). La formazione di questo educatore verrà quindi stabilmente collocata nell’ambito delle scienze dell’educazione. Nello stesso periodo un’altra adunata CUN approva l’ordinamento dei corsi per la formazione degli educatori professionali nelle scuole dirette per fini speciali. All’epoca c’erano già corsi organizzati dalle regioni, ma qui si definisce nello specifico il percorso (caratteristiche, monte ore dei corsi, discipline, ecc.). Si creano quindi due campi: l’educatore umanistico pedagogico con una marcata conoscenza di discipline pedagogiche, sociali e culturali e un altro con caratteristiche tecniche più prontamente spendibili nel mondo del lavoro, che aveva urgenza di “operatori” da immettere nei servizi territoriali. 

Dal decreto Bindi alla “legge Iori”

Quasi un decennio dopo, è il momento del Dm 520 del 1998. Il ministero della Sanità approva questo decreto (all’epoca era ministro Rosy Bindi) in cui l’educatore professionale si incardina, si incanala, verso la professione sanitario/riabilitativa. La sua formazione viene sostanzialmente posta in capo alla facoltà di medicina e di chirurgia, anche se si precisa che i corsi di laurea dovrebbero essere di interfacoltà, ovvero co-costruiti con altre facoltà (come scienze dell’educazione e psicologia). Nella realtà, fatte salve rarissime eccezioni come quella di Torino che durò più a lungo di altre, le interfacoltà non sono mai decollate: sicuramente in questo ha giocato anche una miopia e rigidità del mondo accademico, spesso tendente all’autoconservazione. Una prima cosa da notare è che quel decreto fu firmato solo dal ministero della Sanità. Non venne firmato da altri ministeri che pure erano interessati dalla materia, come quello dell’Istruzione o delle Politiche sociali. Traspariva dunque una certa “settorialità” e si attendevano analoghi provvedimenti per altri comparti. Provvedimenti che non arrivarono e dunque si schiacciò in un ambito, quello sanitario, la definizione dell’educatore: mortificandone – a mio avviso – l’impronta umanistica, sociale e pedagogica cui è culturalmente più affine. 

Lì si incardina la figura dell’educatore professionale ai sensi del Dm 520/98, di matrice sociosanitaria, successivamente compreso nel nuovo albo istituito nell’ordine multiprofessionale TSRM – PSTRP. In seguito al decreto del 1998 vi furono effetti sia positivi che negativi. Da una parte l’aspetto positivo: finalmente nel contratto per la sanità pubblica sono riconosciuti gli educatori, quegli educatori vengono inquadrati come si deve, nel livello del personale laureato, garantendone dignità e ruolo professionale. L’aspetto negativo è che nei servizi della salute lavoravano già educatori formati in ambito umanistico, magari con contratti non convenzionali ed a termine che non sempre vennero rinnovati. Si realizzeranno nel tempo ondate di esodati: con persone che si trovano sbalzate di colpo, da un momento all’altro, fuori dal loro posto di lavoro. Si genera una ferita traumatica che apre a una forte divisione nella categoria professionale degli educatori. Nel mondo del lavoro si innesca una innaturale contrapposizione tra l’educatore umanistico pedagogico e quello sociosanitario. Contrapposizione insensata che non trova riscontro nelle relazioni reali tra i lavoratori, quando possono operare in compresenza. Colleghe e colleghi lavorano fianco a fianco, condividendo le stesse fatiche e le stesse problematiche, si integrano e spesso comprendono al primo sguardo, senza nemmeno (e per fortuna) ricordarsi se uno è laureato in classe L19, oppure in ambito sanitario. 

Da quanto sinora abbiamo descritto appare chiaro come sia una fake news il fatto che la “legge Iori” (peraltro mai approvata in via definitiva) abbia creato divisione: questa biforcazione c’era già da tempo. Cosa succede invece successivamente con la legge di bilancio 205 del 2017 (con alcuni commi specifici) e poi con commi di leggi finanziarie successive (tra cui il comma 517 della legge di bilancio 2019) e l’articolo 33bis (D.L. 104 – 14/08/2020), dal quale scaturì il decreto interministeriale Messa-Speranza? Succede che si tenta di mettere fondamentalmente ordine in un grandissimo disordine. Occorreva sistemare tutta una serie di situazioni pregresse, garantire tenuta dei servizi ed livelli occupazionali. Come abbiamo visto il profilo era già diviso. Si cerca invece di iniziare a riconoscere tutti (e di questo dobbiamo essere grati, va ricordato, a Vanna Iori e all’attenzione costante delle organizzazioni sindacali, in particolare della CGIL-Funzione Pubblica) dando finalmente una cornice normativa di riferimento anche alla parte di gran lunga maggioritaria della categoria degli educatori e delle professioni pedagogiche, ovvero all’educatore socio pedagogico e al pedagogista. In questo modo si colma un divario, si ricuce una forbice, i due profili si avvicinano, si pongono le basi per una compresenza ed una armonizzazione. Una situazione di equilibrio è necessaria per pensare al futuro. Ed in questa scia, almeno in parte e pur contenendo aspetti critici e formulazioni lacunose, si inserisce anche la recente approvazione del ddl 788 che istituisce il nuovo ordine professionale.


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Scenari futuri (reali o immaginari)

Chi scrive, relativamente agli ordini professionali la pensa esattamente come la pensava già parecchi anni orsono il leader radicale Marco Pannella. Sono da sempre per il superamento di questi istituti che ritengo anacronistici, spesso corporativi, talvolta di ostacolo alla libera concorrenza, sovente rappresentano un oneroso costo aggiuntivo per molti professionisti. A mio avviso le funzioni degli ordini professionali potrebbero venire sostituite da più precise norme e leggi quadro. E magari, in futuro, pure da una riforma del valore legale dei titoli di studio che porterebbe giocoforza ad integrare le attuali con nuove e diverse forme di certificazione delle competenze acquisite in Italia e all’estero. Questo però è un discorso troppo vasto da affrontare qui ed ora. A dispetto della mia critica storica, di carattere generale, rispetto all’istituzione ed al mantenimento degli ordini professionali, vorrei spiegare perché ritengo che quella appena avvenuta per le professioni pedagogiche e educative fosse inevitabile (nel contesto dato) e costituisca un elemento di riequilibrio.

In questi anni abbiamo assistito a una infinita serie di contrapposizioni, ricorsi, allusioni nemmeno velate all’abusivismo professionale, attacchi alla spendibilità dei titoli di laurea e risiko sugli ambiti e settori di impiego. Polemiche che hanno generato allarmi (spesso gonfiati dalla bolla ansiogena sui social), davvero assurde se pensiamo che nemmeno sommando gli attuali educatori professionali sociosanitari con quelli sociopedagogici si riesce a soddisfare le esigenze di personale che provengono dai servizi, molti dei quali rischiano addirittura la chiusura. Mentre i due ambiti si perdevano in un contenzioso polemico senza fine, venivano recentemente approvati da diverse regioni provvedimenti tampone che, in deroga al quadro normativo nazionale, hanno nuovamente aperto le porte del lavoro educativo (seppur temporaneamente) a personale non sufficientemente formato. Stante il fatto che solo uno dei due profili di educatore (peraltro quello numericamente minoritario) godeva dello status di “profilo ordinato” e di un proprio albo professionale, si creava all’interno della più vasta categoria un vulnus ed una forbice nella rappresentanza, di cui l’educatore professionale sociopedagogico pagava il prezzo in termini di certezze e tutele. Pensare che il “profilo unico” dell’educatore potesse scaturire dalla “riduzione ad uno” dei due esistenti, con soppressione dell’altro, mi è sempre parsa una via illusoria e fallace e persino autoritaria. 

Detto questo il tema del “profilo unico” è ancora molto sentito e non sarei affatto ostile ad una sua istituzione ex novo, purché fondesse il meglio delle formazioni esistenti e riconoscesse automaticamente come equipollenti senza ulteriori oneri formativi gli attuali EP sociosanitari e sociopedagogici. Ancor meglio se questo nuovo ipotetico profilo unico potesse operare, come avviene in tantissime realtà europee, senza alcun onere obbligatorio di iscrizione ad ordini professionali. Mi chiedo però se il “mantra” ostinatamente ripetuto del “profilo unico” non mascheri accezioni completamente distinte e spesso addirittura opposte: la prima e più importante l’ho già accennata e consiste nella “riduzione ad uno”, contrapposta ad una inclusiva “costruzione ex novo”. 

Ma c’è dell’altro. Molti confondono “profilo unico” con “unico contratto”, con la definizione di un univoco riconoscimento economico e giuridico nel mondo del lavoro. Questo già avviene, almeno in parte, in alcuni contratti che riconoscono entrambi i profili nel giusto e medesimo livello di classificazione del personale, come figure laureate (è il caso ad esempio del contratto pubblico delle funzioni locali). Vi è più in generale una grande confusione e fatica a distinguere le funzioni di un ordine professionale da quelle di rappresentanza dei lavoratori e negoziazione contrattuale, che sono proprie delle organizzazioni sindacali.

Quindi se scomponiamo il tema “profilo unico” e chiediamo cosa intendano con questa definizione alle colleghe e colleghi avremo risposte assai differenti. Dubito che chi lavora da un giorno come educatore (o come nel mio caso da oltre trent’anni) sia davvero angosciato dal fatto che esistano corsi per educatori in due distinti poli formativi. Immagino invece che sia più preoccupato dalla perdita di valore di acquisto del proprio salario; dalle paghe basse; da condizioni di lavoro spesso stressanti in relazione ai turni di servizio; da rapporti personale-utenza a volte soverchianti; da contratti spesso precari o intermittenti; dal taglio delle risorse per attività o supervisioni e da mille altre cose ancora. Problematiche che rendono questa professione realmente gravosa ed usurante (sebbene raramente sia riconosciuta come tale), a costante rischio burnout e che necessiterebbero di maggiore attenzione. La riflessione su queste ed altre tematiche, se si vedesse il bicchiere mezzo pieno, potrebbe essere facilitata da una categoria che inizia a guardare avanti e si lascia alle spalle un periodo di divisione. Gli stessi ordini professionali, se guidati da esponenti aperti al dialogo ed al confronto, potrebbero reciprocamente riconoscersi legittimità e favorire un’armonizzazione, cooperazione, integrazione, dei professionisti dell’educazione. Potrebbero cooperare nella formazione continua degli educatori, proponendola doverosamente a costo zero per i propri iscritti che, a mio avviso, in quanto obbligatoria, dovrebbero poterla svolgere in orario di servizio qualora dipendenti. E si potrebbe finalmente aprire ad un confronto alto, centrato non sul proprio ombelico ma sul senso della educazione professionale e delle pratiche pedagogiche nel nostro tempo, sulle sfide educative aperte oggi in Italia, in Europa, nel Mondo.

Proseguire sulla via dello scontro e della incomprensione davvero sarebbe mortificante. E spingerebbe, come se ce ne fosse bisogno, tante altre persone verso la fuga da questo tipo di lavoro. E chiamiamolo proprio così: lavoro. Lavoro. Che è un termine che riveste un grande significato ed esige rispetto e dignità.

Fabio Ruta, educatore, dottore in Consulenza Pedagogica e Ricerca Educativa

Foto LaPresse/Andrea Alfano


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