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Quel che ci perdiamo a non avere maestri maschi

All women: tutte femmine, a scuola. Gli educatori uomini presenti nella scuola dell’infanzia non arrivano all’1%, mentre i maestri nella primaria si fermano al 3,7%. Che conseguenza ha questo sugli immaginari delle bambine e dei bambini? Lo spiega Irene Biemmi, docente di pedagogia di genere a Firenze

di Sabina Pignataro

Al nido, alla scuola d’infanzia, alla primaria ci sono solo le maestre: tutte femmine. Alle medie e alle superiori anche. Educatori e maestri maschi sono una rarità. «Forse è anche per questo che quando il coordinatore mi ha presentato ai genitori  – racconta Giovanni – una mamma ha detto: “Ma io non voglio un uomo con la mia bambina”». Sembra un aneddoto, ma è accaduto davvero.

Secondo le ultime rilevazioni registrate sul portale dati del ministero dell’Istruzione e del Merito, nell’as 2021/22 su 700mila docenti di ruolo in cattedra, 580mila sono donne, cioè l’83%. La crescente presenza di donne nella scuola italiana, non è una sorpresa. Soprattutto nel primo ciclo: le maestre sono il 99% all’infanzia e il 96% alla primaria.  Alle superiori le professoresse sono i due terzi dei docenti. I dati raccolti da Almalaurea (2021) evidenziano che nell’area dell’educazione e della formazione la presenza di laureate donne nel 2020 è pari al 93,7%, la percentuale più alta a livello europeo.

«La cura è generalmente percepita come un lavoro “facile”, a cui le donne sono “ontologicamente predisposte” in quanto tali, fatto di azioni che non richiedono specializzazione e qualitativamente distinto dall’educazione. Una professione, dunque, che appare specificamente “femminile”, di scarsa rilevanza sociale, mal retribuita, con ridottissime possibilità di carriera», commenta Irene Biemmi, docente di Pedagogia di genere all’Università degli Studi di Firenze. «Giocoforza inaccettabile per un uomo, oltre che impensabile, soprattutto se riguarda la primissima infanzia».

La cura è percepita come un lavoro “facile”, a cui le donne sono “ontologicamente predisposte”. Una professione, dunque, che appare specificamente “femminile”, di scarsa rilevanza sociale, mal retribuita, con ridottissime possibilità di carriera

Irene Biemmi

Nel suo ultimo libro, La maschilità nei contesti educativi e di cura (Carocci, 2023), la pedagogista pone all’attenzione ricerche empiriche e buone pratiche volte a indagare alcune aree critiche: il legame fra maschilità e cura della prima infanzia, le nuove paternità, la violenza di genere.

Ci occupiamo in questo libro della relazione uomini-cura-educazione con la consapevolezza di muoverci inevitabilmente su un terreno di grande complessità e moltissime, possibili diramazioni a partire dal rapporto non sempre chiaro proprio tra cura e educazione.

Irene Biemmi

Professoressa Biemmi, partiamo da un dato che è sotto gli occhi di tutti: quando si parla di cura si parla al femminile. La baby sitter, la maestra. La presenza femminile a scuola è maggioritaria in tutti gli ordini e gradi scolastici quindi comprese le scuole medie e le scuole superiori.

La presenza femminile è totalizzante quando le donne educano i bambini e le bambine più piccole nella scuola d’infanzia e al nido le maestre- educatrici sono più del 99%. Col crescere dell’età degli alunni, la loro presenza, pur rimanendo maggioritaria, diminuisce: le professoresse sono il 65,7%. La cura educativa sembra essere compatibile con un ruolo maschile solo col crescere dell’età delle/dei suoi destinatari

Come mai?

Per molto tempo il mestiere di maestra è stato concepito secondo la logica che viene definita del “maternage”: il ruolo di maestra era concepito come una sorta di naturale prolungamento del ruolo materno nelle professioni educative di cura. Secondo la tesi del maternage una donna, in quanto potenzialmente madre, era in grado di prendersi cura e di educare i bambini e le bambine della fascia d’età della prima e primissima infanzia. Che fosse sufficiente essere donna, lo  dimostra il fatto che per lungo tempo, fino ad anni assolutamente recenti, per diventare maestra d’infanzia e primaria non occorreva neanche essere laureate: una cartina di torna sole del fatto che la cura e l’educazione della prima infanzia non venivano concepite come una vera e propria professione rispetto alla quale servivano competenze specifiche da apprendere ovviamente a livello universitario. E poi, il fatto che per lungo tempo la scuola d’infanzia è stata definita “scuola materna”: ecco, non c’è bisogno di aggiungere altro a questo.

Alla secondaria di primo grado (11-14  anni)  la situazione cambia…

L’insegnamento si allontana dalla dimensione della cura. Quindi un professore o una professoressa delle scuole secondarie non ha nella propria mission quella di instaurare relazioni affettivamente profonde di cura con gli studenti e le studentesse. Per lo meno come viene concepita in Italia questa professione si limita all’apprendimento disciplinarista quindi uno insegna matematica e non ha bisogno di essere particolarmente competente nella dimensione della cura per cui anche gli uomini possono essere ritenuti capaci.

L’aspetto economico sembra essere dirimente.

Per molto tempo le donne hanno scelto la professione di maestra e di educatrice perché secondo un luogo comune (che andrebbe pure sfatato) questa professione occupa metà della giornata e quindi rende possibile quella famosa conciliazione dei tempi di vita e di lavoro che è un problema che gli uomini non si pongono.

Per molto tempo le donne hanno scelto la professione di maestra e di educatrice perché secondo un luogo comune (che andrebbe pure sfatato) questa professione rende possibile quella famosa conciliazione dei tempi di vita e di lavoro che è un problema che gli uomini non si pongono

Irene Biemmi


Altra cosa ancora che metto sul piatto è lo stipendio e lo scarso riconoscimento sociale soprattutto come educatori/maestri. Un uomo nei servizi educativi 0-3 anni è un professionista che sceglie consapevolmente un lavoro meno remunerativo di altri, con minori incentivi economici, nel quale soddisfazioni e riconoscimenti non sono determinati dalla posizione nella scala gerarchica. Per un uomo fare l’educatore al nido, il maestro di scuola d’infanzia, il maestro di scuola primaria è ritenuto una professione a tratti degradante e troppo poco redditizia.

Parliamo ora dell’impatto di questa differenziazione: secondo lei un bambino o una bambina che entra in una scuola dell’infanzia in cui ci sono solo educatrici, “apprenderà” che la cura è ambito femminile?

Per un bambino o una bambina la probabilità di incrociare un educatore o un maestro maschio, a partire dal nido e fino alla scuola media (da 0 a 11 anni) è remotissima. Non è una cosa di poco conto: bambine e bambini apprendono in maniera molto tangibile che quella non è professione adatta per i maschi. Questo impatta moltissimo sull’immaginario dei bambini maschi: la professione di educatore e di maestro viene completamente rimossa dal loro campo di pensabilità non avendo mai visto un uomo che esercita quella professione.  Se non lo vedo, non mi viene in mente che posso esserlo, non penso sia una professione adatta a me.

Se a scuola non ci sono maschi, bambine e bambini apprenderanno in maniera molto tangibile che quella non è una professione adatta per i maschi. Questo impatta moltissimo sull’immaginario dei bambini

A livello collettivo non sembra essere un problema particolarmente sentito. In Svezia qualche anno fa diedero delle borse di studio agli uomini che si iscrivevano a scienze della formazione, mentre in Italia non abbiamo ancora pensato ad azioni positive in questo senso. Cosa ne pensa?

Sulla carenza di educatori e di maestri non viene mai posta l’attenzione come problema né politico né educativo. Contrariamente all’attenzione che è stata rivolta al tema della sotto rappresentazione delle ragazze nell’ambito delle materie Stem, i progetti e le politiche che si occupano della scarsa presenza maschile nell’ambito delle professioni di cura sono infatti molto rari in ambito europeo. Si sente continuamente dire: “Accipicchia non ci sono abbastanza ragazze che si specializzano nelle discipline Stem” e quindi vengono elargite borse di studio alle ragazze che si iscrivono, per esempio, a ingegneria. Ma non ho mai sentito dire di una borsa di studio per un ragazzo diciottenne che si vuole iscrivere a Scienze della formazione. Il problema è proprio che l’assenza degli uomini delle professioni educative e  di cura non viene percepita come problema quindi non ci sono neanche delle politiche per determinare un cambio di rotta.

Donne poco rappresentate, confinate ai ruoli domestici, sottomesse. Lei è stata autrice di uno studio dirompente, realizzato nel 2010 e pubblicato nel libro Educazione sessista. Stereotipi di genere nei libri delle elementari (Rosenberg & Sellier) condotto su un campione di dieci libri di lettura della classe quarta elementare di alcune delle maggiori case editrici italiane. Oltre ad  un ripensamento complessivo dei soggetti che abitano la scuola, non servirebbe anche una rivisitazione delle rappresentazioni del maschile e del femminile contenute nei programmi e materiali didattici?

«La mamma stira e cucina, il papà lavora e legge», dicevamo. Se possibile, la situazione da allora è anche peggiorata. È un mondo di uomini (o di bambini) quello dei sussidiari, dove dati alla mano i protagonisti delle storie sono per quasi il 60% maschili contro il 37% di femmine. Gli uomini sono audaci, valorosi, coraggiosi, seri, ambiziosi, autoritari, duri, bruti, impudenti. Le femmine? Antipatiche, pettegole, invidiose, vanitose, smorfiose, affettuose, apprensive, premurose, buone, pazienti servizievoli, docili, carine. Come dire (e come insegnare): il mondo maschile è forte, persino violento, quello femminile debole e superficiale.

La mamma stira e cucina, il papà lavora e legge. È un mondo di uomini (o di bambini) quello dei sussidiari, dove dati alla mano i protagonisti delle storie sono per quasi il 60% maschili contro il 37% di femmine

Gli stereotipi di genere sono ancora molto diffusi nei testi scolastici e questo è problema di grandi dimensioni, perché i libri su cui si studia a scuola arrivano a tutte e tutti gli alunni. Soltanto negli ultimissimi anni si sta registrando un cambio di rotta grazie ad alcuni editori virtuosi che si sono lanciati nell’impresa di ripensare i libri di testo in ottica paritaria: segnalo in particolare il progetto “Obiettivo parità” di Rizzoli-Fabbri-Erickson, di cui sono referente scientifica, che ha fatto da apripista a partire dall’anno 2018.

Nel libro scrive che «un ulteriore elemento che può comportare un disincentivo per i ragazzi che vogliono svolgere la professione dell’educatore per la prima infanzia è lo spettro dell’abuso sessuale, vale a dire l’associazione che ancora viene fatta tra maschilità e pedofilia nella cura della prima infanzia». Potrebbe spiegare?

Questo è un tema che viene trattato in un bel saggio interno al volume che è stato scritto da Cristiana Ottaviano e Greta Persico che appunto mettono in luce questa sorta di ombra che aleggia quando si pensa al ruolo di educatore soprattutto nella fascia 0-3. Nel nido d’infanzia gli educatori e le educatrici hanno a che fare con i corpi con i corpi dei bambini: c’è il cambio del pannolino; c’è l’accompagnamento al bagno; c’è l’igiene che presuppone quindi appunto che questi professionisti e queste professioniste abbiano a che fare direttamente con la nudità dei corpi. Le autrici, Ottaviano e Persico, parlano proprio di una sorta di ombra della pedofilia che si aggira nella mentalità dei genitori che spesso sono molto preoccupati che il proprio figlio o la propria figlia abbia a che fare con un educatore maschio. Questo deriva chiaramente da un immaginario stereotipato di un maschile in preda a istinti sessuali e predatori, che occorrerebbe a sua volta decostruire.

Oggi però sono sempre di più i padri che si affacciano alla porta del nido o della scuola dell’infanzia. Nel suo libro Enrico, un educatore, racconta: «La mia presenza aiuta di più i papà. È come se io dessi loro manforte. Noi possiamo essere anche questo». Cosa ne pensa?

Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito ad un allontanamento progressivo e costante degli uomini dalle professioni educative. Nelle famiglie, invece, è accaduto il contrario: sempre più padri si prendono cura dei propri figli e delle proprie figlie già dai primissimi mesi e giorni di vita. Anche se qui bisognerebbe aprire delle parentesi: i cosiddetti “nuovi padri” si occupano di più dei figli soprattutto nel gioco e nelle mansioni più divertenti, invece sono meno coinvolti nelle attività meno accattivanti, come curarne l’igiene, accompagnarli a scuola.  Il cambiamento porta sempre con sé contraddizioni e ancoraggi con il passato.

In apertura un’illustrazione tratta da “Cosa faremo da grandi?. Prontuario di mestieri per bambine e bambini” di Irene Biemmi, Illustrazioni di Lorenzo Terranera. Casa editrice: Settenove. Si ringrazia l’ufficio stampa di Settenove per l’autorizzazione alla pubblicazione


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