Cronache africane

Ruanda trent’anni dopo: la campagna d’odio contro i tutsi c’è ancora

A trent'anni dal genocidio dei tutsi in Ruanda, parla Ernest Sagaga, presidente di Ibuka Belgio, la principale associazione di sopravvissuti. In Ruanda oggi la vita è tornata, ma il rischio di un genocidio non è scomparso dalla regione, a causa di campagne di odio, negazionismi e della scarsa attenzione dell'Occidente. Fari puntati su Congo e Burundi

di Paolo Manzo

Andò avanti per cento giorni, dal 6 aprile al 16 luglio 1994. Sono passati trent’anni. Il genocidio dei tutsi in Ruanda deflagrò quando un aereo che trasportava l’allora presidente/dittatore Juvénal Habyarimana, un hutu, fu abbattuto a Kigali. Era il 6 aprile 1994. I tutsi, oggetto di una campagna di odio iniziata quattro anni prima, furono massacrati per cento giorni, insieme ad alcuni hutu e twa (minoranza più nota come pigmei) che cercavano di proteggerli. Come parte delle commemorazioni che si concluderanno domani, in tutto il Ruanda dal 4 aprile sventolano le bandiere a mezz’asta in segno di lutto.

In quei terribili cento giorni, oltre un milione di donne, uomini e bambini furono assassinati, molti di loro a colpi di machete. Un genocidio a cui la comunità internazionale assistette del tutto impotente ed il paradosso fu che Habyarimana venne ucciso da estremisti del suo stesso partito per le sue concessioni verso i tutsi del Fronte Patriottico Ruandese (Fpr) nei colloqui di pace tenutisi il giorno prima, in Tanzania. La sua morte sdoganò gli squadroni della morte hutu, i cui massacri ottennero l’appoggio della radio nazionale e delle truppe regolari ruandesi.

Dopo il 1994 a Kigali non c’è più stato ovviamente alcun censimento su base etnica e, sui 14 milioni di abitanti stimati (l’ultimo del 2012 ne registrò 10,5 milioni), si ritiene che oggi il 9% della popolazione sia tutsi: il 6% in meno rispetto al 15% di inizio 1994 (anche qui però i numeri sono una stima). L’85% si stima sia hutu ed il restante 1% twa.

Per fare il punto a trent’anni di distanza, VITA ha intervistato Ernest Sagaga, il presidente di Ibuka Belgio, un’associazione di sopravvissuti al genocidio tutsi in Ruanda del 1994 nonché ex portavoce della Corte penale internazionale dell’Aia e, in precedenza, giornalista del BBC World Service a Londra.

Sagaga, ci racconti la sua storia personale…

Ho lasciato il Ruanda quando avevo 21 anni nel 1990, dopo l’inizio della guerra civile tra il governo di Kigali e il Fronte Patriottico Ruandese (Fpr). Sono andato a Londra dopo che l’Fpr aveva attaccato dall’Uganda il 1° ottobre 1990 per liberare il Paese dalla dittatura dell’ex presidente Habyarimana. Subito dopo lo scoppio della guerra, i tutsi in Ruanda iniziarono ad essere perseguitati. Molti furono messi in prigione, accusati di essere complici dell’Fpr. E chi non era incarcerato era minacciato di finire in prigione. Per questo sono andato a Londra. Poi, tra 1990 e 1994, i leader e i partiti politici hanno condotto una campagna di odio contro i tutsi sui media. Credo che tutti sapessero del rischio reale di genocidio ma purtroppo non è stato fatto nulla. E così siamo arrivati al 1994, quando attivarono il piano per eliminare i tutsi in Ruanda.

Da Londra lei ha seguito le uccisioni teletrasmesse dai media internazionali. Oggi molti parlano genericamente di genocidio ruandese. Potrebbe spiegare ai nostri lettori perché è un errore? 

Non possiamo parlare di genocidio del Ruanda perché equivarrebbe a dire che sono stati uccisi i ruandesi. Non ha senso. O forse fa credere che qualcun altro ha ucciso i ruandesi, ma non è vero. Le persone prese di mira sono stati i tutsi e per questo bisogna dire che si tratta di un genocidio che ha preso di mira loro, che sono stati bersagliati come gruppo. Pertanto, coloro che usano la parola genocidio ruandese, fanno il gioco di chi tende a negarlo. Ed è molto pericoloso dare manforte a questo tipo di negazionismo. O al revisionismo, perché anche questo è un dato di fatto nel discorso pubblico di oggi. 

Non possiamo parlare di genocidio del Ruanda perché equivarrebbe a dire che sono stati uccisi i ruandesi. Le persone prese di mira sono stati i tutsi. Sono stati bersagliati come gruppo

Ernest Sagaga, presidente Ibuka Belgio

Quali sono i numeri delle vittime del genocidio contro i tutsi e quelli dei sopravvissuti?  

Non si può mai dire con esattezza quante persone siano state uccise in un genocidio, ma di sicuro ogni indagine affidabile e credibile fatta indica che ci sono più di un milione di persone uccise in Ruanda durante i cento giorni, cioè quanto è durato il genocidio. Per quanto riguarda il numero di sopravvissuti che vivono nella diaspora, parliamo di decine di migliaia.

A distanza di 30 anni, cosa è cambiato e cosa no? 

Ciò che è cambiato è che il genocidio è stato fermato e il Paese è andato avanti. Se si visita il Ruanda oggi, si rimane stupiti nel vedere i progressi compiuti negli ultimi 30 anni. E questo è un fatto positivo. Le persone sono in grado di mettere su famiglia e svolgere i loro affari, i bambini possono crescere e andare a scuola. Quindi, la vita è tornata in Ruanda, anche e soprattutto per i tutsi, e questo è molto positivo. Quello che non è cambiato è ciò di cui stiamo discutendo. La campagna d’odio è ancora in corso, fuori dal Ruanda, perché in Ruanda non possono farlo. La nostra Costituzione include infatti una legge contro il genocidio e l’ideologia del genocidio. Quindi oggi nessuno può chiedere l’uccisione di persone o continuare a indottrinare i giovani affinché compiano di nuovo tale crimine. Questo è un bene, ma purtroppo, al di fuori del Ruanda, ci sono persone ancora in grado di condurre una campagna di odio, negando il genocidio o addirittura accusando coloro che lo hanno fermato di averlo commesso. È una crudele ironia. 

Altri cambiamenti positivi?

La giustizia. C’è stata giustizia contro coloro che hanno commesso il genocidio, sia in Ruanda che fuori, principalmente davanti al Tribunale Internazionale per il Ruanda, con sede ad Arusha, e anche in Belgio, Francia, Paesi Bassi, la Germania e alcuni Paesi scandinavi. Le persone sono state processate per il loro coinvolgimento nel genocidio contro i tutsi. 

Oggi, nelle scuole ruandesi, quando si insegna la storia, si fa come in Germania con la denazificazione, ovvero una revisione per spiegare cosa è realmente accaduto?

Sì, ed è molto importante perché il modo migliore per impedire che quel crimine venga commesso di nuovo è proprio educare i giovani. Far sì che capiscano. Le ragioni per cui il genocidio è potuto avvenire in un Paese in cui le persone parlano la stessa lingua, hanno la stessa cultura, vivono insieme. Non abbiamo un Hutuland, un Tutsiland, un Twaland, no. Viviamo insieme in campagna, in città, ovunque. Perciò è importante che i giovani siano consapevoli dell’ideologia che ha portato alle divisioni e che a sua volta ha condotto al genocidio. 

Il modo migliore per impedire che quel crimine venga commesso di nuovo è proprio educare i giovani. Far sì che capiscano le ragioni per cui il genocidio è potuto avvenire in un Paese in cui le persone parlano la stessa lingua, hanno la stessa cultura, vivono insieme

Alla commemorazione del trentennale, alcuni giorni fa, c’erano due grandi assenti, ovvero i presidenti della Repubblica Democratica del Congo (RDC) e del Burundi. Come spiega questa assenza notata da tutti? 

È davvero spiacevole perché nel caso del Burundi, abbiamo la stessa struttura sociale con i tre gruppi, ovvero hutu, tutsi e twa, una minoranza di cui non si parla spesso. Esattamente la stessa configurazione. Per non dire del Congo orientale, dove c’è una situazione che potrebbe portare a un altro genocidio.

Come giudica e valuta le ultime dichiarazioni di Macron che ha riconosciuto la responsabilità della Francia?

Quando ha detto che la Francia avrebbe potuto impedire il genocidio in Ruanda contro i tutsi, ha assolutamente ragione, perché la Francia era la nazione di fiducia del precedente regime. Ha fornito loro la copertura politica e diplomatica, ha addestrato i militari e la gendarmeria, hanno equipaggiato l’esercito. Quindi la Francia avrebbe potuto semplicemente dire ai ragazzi di Kigali di smettere di uccidere la gente, e si sarebbero fermati subito. Ma non l’ha fatto. La dichiarazione che Macron ha fatto qualche giorno fa si basa in realtà sui risultati della commissione da lui stesso istituita un paio di anni fa, che ha redatto un rapporto in cui si dimostra chiaramente la pesante responsabilità della Francia in ciò che è accaduto in Ruanda nel 1994. Una commissione di storici francesi, guidati dal professor Vincent Duclert. Questo rapporto è molto autorevole e nessuno è stato in grado di mettere in discussione le loro conclusioni. Quindi Macron ha ragione e il suo messaggio è credibile ed appropriato. 

Continuate ad informarvi su quello che è successo in Ruanda, e ricordatevi delle conseguenze molto gravi di qualsiasi campagna di odio, di discriminazione, perché può portare a quello che abbiamo visto in Ruanda nel 1994. E può realmente accadere ancora

Quale messaggio vuole mandare agli italiani sull’importanza di ricordare quello che è successo 30 anni fa?

Abbiamo molti buoni amici in Italia del Ruanda che capiscono cosa è successo nel mio paese 30 anni fa. Il mio messaggio per loro è che, per favore, continuate ad informarvi su quello che è successo in Ruanda, e ricordatevi delle conseguenze molto gravi ovunque di qualsiasi campagna di odio, di discriminazione, di qualsiasi cosa che voglia veramente un gruppo di persone, perché può portare a quello che abbiamo visto in Ruanda nel 1994. E può realmente accadere ora in RDC se la gente non presta attenzione. L’Italia è un Paese molto potente nella diplomazia e nelle relazioni internazionali, soprattutto in Europa ma anche nell’Onu. E so che è un buon e importante partner dell’Unione africana. Tutte istituzioni in cui l’Italia può portare la sua influenza affinché ciò che è successo in Ruanda nel 1994 non accada altrove. Ai nostri amici in Italia dico: prestate attenzione a ciò che sta accadendo nell’est del Congo. E per favore alzate la voce e monitorate la campagna di odio e discriminazione in atto contro i tutsi congolesi. Sono congolesi, vivono nel Congo, vi hanno vissuto per secoli e il fatto che parlino kinyarwanda non li rende meno congolesi di altri cittadini che parlano altre lingue in Rdc.

Credit foto AP – rifugiati fuggiti dal bagno di sangue etnico nel vicino Ruanda trasportano contenitori d’acqua verso le loro capanne nel campo profughi di Benaco, in Tanzania, vicino al confine con il Ruanda, il 17 maggio 1994.

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