Scuole di cittadinanza
Scuola e associazioni insieme: un win win per la cittadinanza
Haripriya Devi Ghoorum è un’attivista di 23 anni. È arrivata in Italia dalle Mauritius quando ne aveva sette. «Mi sono sempre sentita italiana ma credo che ci sia a livello legislativo, culturale e quindi anche scolastico, ancora tanta strada da fare per arrivare ad una vera inclusione. Però c’è uno strumento - su questo tema - di cui non abbiamo ancora sfruttato a pieno le potenzialità: la relazione tra scuola e Terzo settore. Usiamola per cambiare le cose»
di Anna Spena
«Il mio ottavo compleanno è stato il primo che ho festeggiato in Italia, con mia madre avevamo raggiunto qui il mio babbo che aveva lasciato le Mauritius qualche anno prima di noi». Oggi Haripriya Devi Ghoorum di anni ne ha 23, è una studentessa della facoltà di giurisprudenza. Il papà lo chiama “babbo” e questo è, insieme all’accento, il primo indizio che è toscana. «Quando sono arrivata a Firenze non parlavo una parola di italiano ma solo creolo mauriziano, un dialetto francofono».
Haripriya Devi Ghoorum ha ottenuto la cittadinanza italiana solo da pochi giorni. È una giovane donna dalla voce piena e dai pensieri veloci. Oggi è un’attivista per l’organizzazione umanitaria ActionAid, che aderisce alla campagna “Dalla parte giusta della storia”, promossa dalla Rete per la Riforma della Cittadinanza che mira a rivendicare il diritto alla cittadinanza di oltre un milione di giovani nati o cresciuti in Italia. «Io dentro mi sono sempre sentita italiana. Ma nella mia testa c’era quella vocina che diceva “sei italiana, ma…”».
Ti ricordi i primi mesi in Italia?
Sì, non capivo una parola. Io e mia mamma abbiamo raggiunto il mio babbo che già viveva qui. Volevamo stare insieme e volevamo stare bene. Posso chiarire prima una cosa?
Certo.
Gli immigrati non partono solo per avere una vita migliore o più possibilità. Mio padre, per esempio, è sempre stata una persona molto curiosa. Lui voleva viaggiare, vedere il mondo. Credo che il primo problema con le persone di origine straniere in Italia sia questo: che vengono guardate solo attraverso la lente del pietismo.
Hai iniziato subito a frequentare la scuola primaria?
Alle Mauritius ho frequentato l’asilo e il primo anno di elementari. In Italia sono arrivata in un mese freddo, forse febbraio. E ho iniziato a frequentare la seconda elementare a maggio dello stesso anno. Sono entrata in classe e continuavo a non capire una parola. Ma l’italiano l’ho imparato quell’estate stessa, perché andavo da un’insegnante privata. Me la ricordo ancora, la maestra Donatella. Aveva un fascicolo blu con tutte le parole in italiano e la traduzione in inglese, che è la mia lingua di transizione e alla quale sono ancora oggi molto legata. Mi è bastata un’estate per imparare la lingua, all’inizio della terza elementare il mio livello era già fluente.
I bambini come me, i bambini stranieri, venivano inseriti in un percorso di integrazione. E la cosa non mi piaceva. Perché la me bambina percepiva questa cosa come un sottolineare che tra noi e gli altri ci fosse una differenza
Qual è stato il ruolo della scuola?
I bambini come me, i bambini stranieri, venivano inseriti in un percorso di integrazione. E la cosa non mi piaceva. Perché la me bambina percepiva questa cosa come un sottolineare che tra noi e gli altri ci fosse una differenza. Come se non fossimo seguiti in modo “normale”. Ci portavano in un centro linguistico per fare lì delle ore di lezione. Non ci sarebbe stato niente di male se fossero state ore aggiuntive, quello che proprio non mi andava è che erano ore dedicate alla didattica “normale” e quindi io e gli altri compagni perdevamo ore di lezione su altre materie. Stavi lì, con altri bambini stranieri come te, di tutte le età. Io ero fortunata, l’italiano l’avevo imparato d’estate e poi venendo da una base francofona per me è stato più facile.
Credi che in qualche modo la scuola per te sia stata e possa essere oggi un luogo in cui si costruiscono la cittadinanza e i cittadini? In cui si costruisce anche senso di appartenenza o identità?
Io posso parlare solo per me, e per la mia esperienza di bambina straniera arrivata in Italia. Non credo, ad oggi, che la scuola sia un luogo dove si costruisce la cittadinanza soprattutto quando si parla di bambini con background migratorio. Credo che rispetto al tema migrazione e stranieri ci sia un’epidemia culturale, non solo legislativa. Credo anche che l’inclusione sia quello a cui dobbiamo ambire, ma ad oggi mi sembra che sia una parola più abusata che praticata.
Di cittadinanza a scuola non si è mai parlato esplicitamente. Ovviamente parlo solo per la mia esperienza. Credo che all’epoca la scuola italiana facesse un grande lavoro di integrazione soprattutto per quanto riguardava l’aspetto linguistico: ma imparare la lingua, pur essendo un aspetto fondamentale, non basta
In che senso?
È come se mancasse un po’ la coscienza di cosa sia la cittadinanza. Le maestre a scuola non me lo hanno mai insegnato. Di cittadinanza non si è mai parlato esplicitamente. Ripeto, io parlo solo per la mia esperienza. Credo che all’epoca la scuola italiana facesse un grande lavoro di integrazione, che è diversa dall’inclusione, soprattutto per quanto riguardava l’aspetto linguistico: ma imparare la lingua, che comunque rimane un aspetto fondamentale, non basta.
Puoi spiegarci meglio cosa manca, cosa non funziona dal tuo punto di vista?
Io non sono diventata attivista per caso. Credo che i bambini vivano un grandissimo senso di frustrazione e crisi identitaria quando arrivano. Chi arriva si deve adattare, giustamente, alla cultura italiana. Ma mi pare manchi ancora quello sforzo di chi accoglie, quella curiosità, di conoscere il “diverso”.
C’è stato un momento in cui hai pensato “sono italiana”?
L’ho sempre sentito e basta. Mi sono sempre sentita diversa ma comunque italiana, anche se non avevo un passaporto a certificarlo. Il mio passaporto non è mai stato un problema fino a quando è arrivato il momento di scegliere l’università.
Perché?
Io ho studiato al liceo classico e volevo fare giurisprudenza in Inghilterra. Semplicemente ho capito di non poter seguire quel desiderio perché, pur avendo il profilo e le competenze adeguate, mi mancavano i documenti. Sia per andare in Inghilterra che in qualunque altro Stato: ero un’extracomunitaria. Lo stesso vale, solo per fare un esempio, per le tante ragazze e ragazze che non possono partecipare a competizioni sportive a livello nazionale perché sulla carta non sono italiani. Credo che però la mia esperienza scolastica sia personale e non replicabile. Io per esempio ho frequentato un liceo dove c’erano solo cinque persone nere, me compresa. Oggi invece il numero di studenti con background migratorio è sicuramente più alto, c’è più consapevolezza.
Quando sei diventata – anche per la legge – cittadina italiana?
Il 4 settembre di quest’anno ho fatto il mio giuramento. È stata una grande soddisfazione, un momento di luce in fondo al tunnel. Ho lottato tantissimo per avere la cittadinanza e ho dovuto fare richiesta due volte per ottenerla.
Cosa credi sia cambiato da quando tu frequentavi la scuola ad oggi?
A volte come attivista tengo dei talk nelle scuole. A volte mi capita di pensare che tutto sia rimasto fermo, altre invece mi capita anche di pensare che invece le cose stiano evolvendo. Dipende dal contesto, e non tutti i contesti – quindi non tutte le scuole – sono uguali. C’è anche molta più consapevolezza nelle nuove generazioni di ragazzi e ragazze con background migratorio rispetto ai loro diritti. E l’attenzione ai diritti la vedo in generale in tutte le nuove generazioni, a prescindere dall’origine: mi pare che i giovani abbiano una sensibilità diversa su temi come immigrazione e razzismo.
La scuola come istituzione non è ancora abituata a pieno al “diverso”, le associazioni invece sì. Quando scuola e associazioni lavorano insieme vincono tutti
Dal tuo punto di vista di giovane con background migratorio cosa potrebbe aiutare le scuole a diventare luoghi dove si costruiscono percorsi di cittadinanza?
Il dialogo con le associazioni e le realtà del Terzo settore. Credo che questo sia uno strumento ricco di potenzialità che ancora non sfruttiamo abbastanza. La scuola come istituzione non è ancora abituata a pieno al “diverso”, le associazioni invece sì. Hanno competenze e conoscenze che sicuramente agevolano i percorsi formativi. Quando scuola e associazioni lavorano insieme vincono tutti: gli insegnanti, i ragazzi e le ragazze con background migratorio, i ragazzi e le ragazze senza background migratorio. Credo che, e questo soprattutto nelle scuole superiori, sarebbe utile avere sportelli informativi più pratici per supportare i ragazzi ad uscire dal labirinto della burocrazia italiana. Sportelli che rispondano a domande del tipo “come si chiede la cittadinanza”, “cosa posso fare in più quando la chiedo”, “perché è complicato ottenerla”.
E sullo Ius Scholae?
Come attivista di ActionAid e della campagna che promuove “Dalla parte giusta della storia”, ritengo che l’approvazione di una nuova legge sia una necessità non più rinviabile. “Dal 5 febbraio 1992, giorno di approvazione della legge sulla cittadinanza, ci separano trent’anni. In questi tre lunghi decenni l’Italia è cambiata radicalmente. Nel 1992 erano residenti in Italia poco più di trecentomila cittadini stranieri. Oggi sono più di cinque milioni. I luoghi di lavoro e di formazione, lo sport e gli spazi di socialità, le organizzazioni solidali e i sindacati sono caratterizzati dalla partecipazione strutturale e qualificante di persone che, a vario titolo, hanno un background migratorio nella biografia personale o familiare. lo Ius scholae è un principio da sostenere e ampliare”, come si legge nel testo della campagna che sostengo.
Nei ragazzi di origine straniera ancora oggi ci siano pari capacità ma non pari opportunità
Che iniziative state portando avanti per tenere alta l’attenzione sul tema?
A parte l’organizzazione di incontri e talk dentro le scuole cerchiamo anche di lavorare fuori dal contesto scolastico. Per esempio durante il festival della partecipazione organizzato da ActionAid a Bologna abbiamo creato un’installazione da esporre a Sala Borsa. L’iniziativa rientra nel progetto Back to School e vogliamo sfruttare il momento importante del rientro a scuola per portare l’attenzione sulle classi italiane dove un bambino su dieci è straniero. L’idea dell’installazione è nata da questa storia: ci sono due ragazze, Fatima e Marta, frequentano il quinto anno di liceo, e la scuola sta organizzando una gita scolastica all’estero. Marta ha il passaporto italiano, Fatima, nonostante viva da anni in Italia, non può partire perché ha solo il passaporto marocchino. Quindi per spostarsi deve chiedere un visto. Concretamente l’installazione comprende due lavagne, su entrambe le lavagne è disegnato “lo zaino dei diritti”. Solo che gli zaini di Fatima e Marta non hanno lo stesso peso. Lo zaino di Marta sarà bello pieno, e tra gli oggetti ci saranno tante foto della gita fatta. Nello zaino di Fatima, invece, ci sarà solo il passaporto marocchino e la stampa della mail della segreteria della scuola che le comunica che non può partecipare alla gita perché il visto doveva essere chiesto prima. Ovviamente è un messaggio simbolico, ma se ci pensiamo anche nelle università quanti ragazzi di origine straniera vogliono partire per l’Erasmus e non possono farlo? Credo che nei ragazzi di origine straniera ancora oggi ci siano pari capacità ma non pari opportunità.
Questo articolo fa parte della serie “Scuole di cittadinanza”.
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