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Giustizia

Sesso e affettività in carcere, la Consulta dice sì

La Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la norma dell’ordinamento penitenziario che nega gli incontri senza controllo visivo tra i detenuti e i partner. L’avvocato Brucale: «È un passo in qualche misura rivoluzionario, che disegna una strada da percorrere, ancora lunga, ancora difficile»

di Ilaria Dioguardi

La sentenza della Corte costituzionale, n.10 del 2024 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.18 dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non permette di avere colloqui “con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia”. «È un passo di estrema importanza nella direzione della necessità di riconoscere al carcere un volto umano e alla persona detenuta la possibilità di accedere, pur privata della libertà, alla piena estrinsecazione della propria personalità», commenta Maria Brucale, avvocato, componente del Direttivo dell’associazione Nessuno tocchi Caino.


Nella sentenza è scritto che “L’ordinamento giuridico tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza”. «Già nel 1987 la Consulta aveva riconosciuto la sessualità come uno degli essenziali modi di espressione della persona umana qualificando la possibilità di disporne liberamente come “diritto soggettivo assoluto”. A distanza di oltre 35 anni da quella affermazione di principio», continua Brucale, «il diritto è riconosciuto, sebbene circoscritto dalle esigenze di tenuta del sistema carcere in termini di sicurezza, e di ordine e disciplina. Il concetto di sicurezza non attiene al tipo di reato».

Non sono esclusi i reati ostativi

«La sentenza dice espressamente che non sono esclusi i reati cosiddetti ostativi e, in realtà, uno degli aspetti problematici della pronuncia della Corte è proprio la specificazione di tali concetti in sé troppo aperti: sicurezza, ordine e disciplina. Declinarli correttamente e applicarli rimane allo stato attuale una prerogativa delle amministrazioni penitenziarie e, in sede di reclamo, della magistratura di sorveglianza», dice l’avvocato. «Ma sarà il tempo a dire quali situazioni o comportamenti varranno alla persona reclusa un rifiuto del diritto in ragione della sussistenza di ragioni di tutela interna dei penitenziari».

Il problema degli spazi

Altro aspetto problematico è quello delle strutture detentive sempre sovraffollate e inidonee allo stato attuale a garantire spazi adeguati e locali idonei a offrire a tutti l’accesso all’affettività intima. «Ancora, occorrerà misurarsi con le esigenze di attuazione del nuovo diritto – ovviamente preesistente ma solo oggi riconosciuto – per le tante persone che, pur avendo relazioni stabili all’esterno, non sono in grado di dimostrarle con un certificato di convivenza che all’estero, a volte, neppure esiste. Sarà necessario scongiurare il rischio che la fruizione del diritto venga nella pratica connessa a ragioni di premialità divenendo strumento di controllo della popolazione detenuta. È la sentenza a chiarire che il godimento di un diritto in quanto tale non può essere subordinato a logiche corrispettive», prosegue l’avvocato.

Dovrà essere compreso, prima o poi, che tutelare il benessere delle persone in carcere, fare in modo che non escano annichilite dalla esperienza detentiva, tutela la società tutta

La resistenza sociale

«Bisognerà anche affrontare la resistenza sociale ad ammettere che anche chi è recluso viva la sessualità spogliando la stessa di una valenza ludica, quando non pruriginosa, e affermandola come essenza e sostanza di individualità, che ha inevitabili riflessi sulla salute fisica e psichica di chi ne è coattivamente privato. Resta la nota dolente dell’esclusione delle persone in 41 bis», continua, «il regime di massima afflizione, a volte per oltre 30 anni escluse del tutto dall’ipotesi di un progetto di rieducazione e di reinserimento, con buona pace dell’anima costituzionale di ogni pena».


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Un passo rivoluzionario

È comunque quello compiuto con la sentenza della Consulta un passo da più parti considerato storico, «in qualche misura rivoluzionario che disegna una strada da percorrere, ancora lunga, ancora difficile. Dovrà essere compreso prima o poi che tutelare il benessere delle persone in carcere, fare in modo che non escano annichilite dalla esperienza detentiva, tutela la società tutta. Ancora, purtroppo, tale visione è controintuitiva e si tende a considerare chi è ristretto altro da sé, lontano il più possibile dalle nostre vite», prosegue Brucale. «Così si acuisce una sensazione di isolamento e di abbandono che chi vive la pena percepisce, a volte, come disperante e senza via di uscita fino alla scelta estrema del suicidio».

Già 12 suicidi dall’inizio dell’anno

Nel 2024 già 12 persone si sono tolte la vita, l’ultima ieri a Foggia. «Non è possibile ovviamente sondare il punto di rottura del loro vissuto che le ha condotte a determinarsi a tale gesto anticonservativo. Ma è certo che la sconfitta del sé, strada quasi obbligata di una reclusione che sgretola la personalità e si configura come interruzione di qualsiasi percorso o di esperienza lavorativa, familiare, affettiva, può determinare uno smarrimento irrecuperabile, una disfatta ultima che induca a scegliere di uscire dal dolore, dalla pena, dalla vita».

Foto di apertura Goran Horvat da Pixabay


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