Conflitti

Pulizia etnica in Darfur

L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati afferma che in Sudan si sta verificando una crisi umanitaria “inimmaginabile” mentre i paramilitari guidati dal generale Dagalo (RSF) e le milizie arabe loro alleate sono state accusate da più parti di aver ucciso migliaia di persone di etnia Masalit, saccheggiato case e violentato donne. Da aprile, quanto è scoppiata di nuovo la guerra, la situazione non fa che peggiorare e bisognerebbe intervenire subito, come denunciano Msf, Onu e Oms, ma al momento, purtroppo, la situazione sta precipitando

di Paolo Manzo

Credits: United Nations Photo
Photo by Albert Gonzalez Farran / UNAMID

Sta precipitando la situazione nel martoriato Darfur, in Sudan. Almeno 200 persone sono state uccise negli ultimi quattro giorni in una città vicino a El Geneina, la capitale del Darfur occidentale. Vittime di un attacco del gruppo paramilitare RSF, acronimo di “Forze di supporto rapido”.

La clinica di Medici Senza Frontiere ne| Tunaydbah Camp, a Gedaref, prima del conflitto (Credit: MSF)

L’organizzazione della società civile Darfur Victims Support ha pubblicato foto del massacro chiedendo “un’indagine indipendente da parte della Corte penale internazionale e di organizzazioni indipendenti per i diritti umani. E che i colpevoli siano ritenuti responsabili”.

Il segretario generale della Mezzaluna Rossa sudanese, Adam Haroum, ha denunciato che «RSF ha commesso un massacro nella città di Erdamta, vicino a El Geneina». Per lui «il bilancio iniziale delle vittime supera le 200 persone».

Dal canto loro, i comitati di emergenza del Darfur occidentale, che comprendono sindacati di medici e operatori sanitari nella zona, hanno denunciato che «il bilancio delle vittime supera i 300».

Fonti locali affermano che le violenze contro la tribù Masalit, vittima di una pulizia etnica da parte delle Forze paramilitari del generale Mohamed Hamdan Dagalo, alias Hemedti, sfiorerebbero già il migliaio di persone. Una catastrofe umanitaria che non accenna a diminuire, anzi.

Il 3 ottobre, l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) aveva espresso «grande preoccupazione» per la situazione delle donne e delle ragazze nelle aree controllate dalle Forze di supporto rapido (RSF) in Darfur, che vengono «rapite, incatenate e tenute in condizioni disumane e degradanti, simili a quelle della schiavitù». 

Nel suo rapporto, l’Ohchr aveva indicato che fossero state rapite almeno 20 donne e ragazze.

Purtroppo negli ultimi giorni la situazione è precipitata. La scorsa settimana RSF ha conquistato Nyala e Al Fashar, due città nel Darfur occidentale mentre l’esercito sudanese del generale Abdel-Fattah Burhan controlla ormai solo una parte della capitale Khartoum e l’est del paese, compreso Port Sudan, sul Mar Rosso.

Da quando è scoppiato il conflitto il Sudan sta vivendo una brutale guerra civile. Almeno 11mila le vittime, mentre oltre 25 milioni hanno bisogno di aiuti umanitari secondo le Nazioni Unite, che parlano di «crisi umanitaria inimmaginabile». Un milione i rifugiati nei paesi vicini mentre almeno cinque milioni gli sfollati interni.

Gli aiuti internazionali sono in ritardo e mezzo milione di rifugiati sudanesi in Ciad sono allo stremo. «Il sistema sanitario in Sudan è al collasso», denuncia Ni’ma Saeed Abid, rappresentante dell’Oms nel paese africano.

«Lo stato è assente e la situazione rasenta il caos», raccontava qualche giorno fa al telefono Mohammed Almoufty, residente a Nyala al quotidiano olandese NRC Handelsblad. «I conflitti tra gruppi di popolazione sono comuni in Darfur. Ma poi la riconciliazione di solito segue grazie alla mediazione dei leader tradizionali. Ora però le parti in conflitto di Hemedti e Burhan stanno rovinando questo modus operandi».

A Nyala gli ospedali sono stati distrutti e le aree residenziali saccheggiate. Nel Darfur occidentale arrivano da mesi mercenari da Ciad, Libia e Niger. Intanto, la pulizia etnica dei Masalit dopo El Geneina si sta estendendo a quasi tutto il nord Darfur. Molti dei combattenti su entrambi i fronti sono i fondamentalisti islamici alleati del deposto presidente Omar al-Bashir, nel 2019.

Al-Bashir era stato condannato nel 2015 per genocidio dalla Corte Penale Internazionale, ma non fu mai arrestato. All’epoca Hemedti era il comandante della milizia Janjaweed (da cui sono nate poi le RSF) accusata di stupri di gruppo, incendi di villaggi e uccisioni di massa nella ventennale guerra in Darfur.

In questo contesto, la ricerca di una soluzione politica sta diventando sempre più difficile ma anche urgente. Ieri ad Addis Abeba si sono incontrati gruppi civili che hanno istituito un governo in esilio guidato da Abdalla Hamdok. È l’ex primo ministro civile il cui governo fu rovesciato nel 2021 dal golpe di Burhan ed Hemedti, all’epoca alleati.

E sempre ieri l’Arabia Saudita, gli Stati Uniti e l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo hanno annunciato un impegno tra l’esercito di Burhan e i paramilitari di Hemedti. Obiettivo adottare misure per facilitare l’arrivo di aiuti umanitari e un cessate il fuoco. Resta da vedere se seguiranno fatti concreti. 

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Di certo c’è che l’ong Medici Senza Frontiere ha riferito ieri che oltre 7.000 persone hanno attraversato il confine tra Sudan e Ciad in appena tre giorni. Per l’intensificarsi dei combattimenti nella regione di El Geneina. «Nei primi tre giorni di novembre abbiamo visto più arrivi di rifugiati sudanesi che nell’intero mese precedente», ha dichiarato Stephanie Hoffman, coordinatrice di Msf ad Adré, città ciadiana di confine. Solo lo scorso fine settimana, MSF ha accolto 36 feriti, tra le migliaia di rifugiati dal Sudan, per lo più donne e bambini arrivati ​​in Ciad «senza nulla, poiché le loro case sono state distrutte».

Intervento di Medici Senza Frontiere ad Adré lo scorso novembre (Credits: MSF/Jan Bohm)

La direttrice di Msf, Claire Nicolet, denuncia che «la risposta umanitaria non è ancora proporzionata alla portata della crisi nel Ciad orientale». Poi ha lanciato un appello per «un aumento immediato di aiuti umanitari per i più vulnerabili. E per la garanzia dell’accesso ai servizi sanitari di base come acqua, assistenza medica, alloggio e cibo».

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