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Andrea Polo

Cari papà, godetevela

di Sara De Carli

Andrea Polo
Nonno Cosimo, classe 1886, non prese mai in braccio nessuno dei suoi figli perché era una cosa da donne. Papà Marco, classe 1939, ha pianto solo alla laurea del figlio. Andrea, classe 1975, ha combattuto per fare il papà bibliotecario nella scuola dei figli. Cento anni di storia d'Italia e tre generazioni di padri nel libro di Andrea Polo, che dice: «Non fatevi chiudere in schemi che vorrebbero i padri fuori da alcune cose. Siate padri, con tutta la gioia e la paura che questo comporta»

Era grasso, vestiva sempre di velluto scuro e con un cappello come quello che si usa per andare a caccia e che gli piaceva il vino: il bisnonno Cosimo, per Marco e Giovanni, è poco più di questi dettagli superficiali, quelli immortalati in una vecchia foto dell’album di famiglia. Ma il bisnonno Cosimo, classe 1886, era ben più di questo. Storie di padri. Storie di figli (Paesi Edizioni) è un libro che ripercorre la storia di quattro generazioni, di padre in figlio. Sono 117 anni di storia e di storie, di modi differenti di essere padre e di essere figlio, segnati sia dai tratti del carattere sia dalle impronte dello spirito del tempo. A scriverlo è Andrea Polo, cagliaritano, classe 1975, uno dei nomi più noti della comunicazione d’impresa italiana, oggi direttore della comunicazione di Facile.it. È nipote di Cosimo, figlio di Marco e papà di Marcello e Corrado (che nel libro si chiamano Marco e Giovanni), a cui ha voluto riconsegnare, con questo libro, le loro radici.

«Nonno Cosimo dai figli si è sempre fatto dare del lei, come si usava un tempo nella Sardegna interna. Non prese mai in braccio nessuno dei suoi figli o nipoti perché, diceva, è una cosa da donne. Tutti lo ricordano come un uomo severo, i cui occhi si inumidirono solo alla laurea di mio padre, quando capì di essere riuscito, lui umile ferroviere, a fare per bene il mestiere di padre», ricorda Andrea. La storia di nonno Cosimo è strabiliante: a soli cinque anni fu mandato a pascolare le greggi di altri e imparò a leggere e scrivere al fronte, da un ufficiale. Finita la guerra fece il concorso alle Ferrovie dello Stato, dove lavorò per tutta la vita mantenendo e crescendo da solo undici figli. La moglie infatti morì di parto nel 1939 nel dare alla luce Marco, l’ultimo. «Immaginatevi quanto carattere sia servito per crescere da solo tutti quei figli», scrive Andrea. «Proprio perché aveva imparato a leggere e scrivere da adulto, nonno Cosimo capiva bene il valore dell’istruzione. Per tale motivo volle che tutti i suoi figli studiassero, maschi e femmine, riuscendo a farne laureare un buon numero. Quell’ufficiale che gli insegnò a scrivere cambiò la vita a lui, e a tutti noi, anche se ancora non eravamo nati».

Spesso nel nostro mestiere si comunica e si racconta perché si capisce di avere una bella storia per le mani. Quella di nonno Cosimo certamente lo è. Ma cosa le ha fatto capire che era il momento giusto, dal punto di vista della comunicazione, per scrivere di papà?

I miei figli hanno 18 e 14 anni: in verità io scrivo di papà e di paternità da 15 anni. Quanto alla storia di nonno Cosimo, era capitato di parlarne a cena con amici, capivo che era una bella storia… ma il vero clic è accaduto ad agosto 2022 quando è mancato mio papà e mi sono ritrovato a mettere ordine nel suo studio. È stata un’impresa epica ma meravigliosa, perché ho trovato tantissime cose che io stesso non sapevo di lui, di mio nonno e probabilmente neanche di me stesso.

La copertina del libro di Andrea Polo

Come neanche di lei?

Tante cose le ho capite in quel momento, cose che avevo interpretato in maniera diversa quando erano accadute, quando io avevo 15 o 16 anni. Altre davvero le ho scoperte solo lì, per esempio la lettera-testamento di nonno Cosimo, religiosamente conservata da mio padre: non ce ne aveva mai parlato. Comunque ho capito che se non avessi messo io nero su bianco quei ricordi sul nonno e sul bisnonno, i miei figli non li avrebbero mai saputi. Ho voluto raccontare questa storia familiare per tramandare. E anche per dire “godetevi il fatto di essere papà” in tutta la sua bellezza e il suo piacere. Non fatevi condizionare da chi dice che non sta bene che il papà faccia certe cose con i figli o che faccia volontariato a scuola: non fatevi chiudere in schemi che vorrebbero i padri fuori da alcune cose. Siate padri, con tutta la gioia e la paura che questo comporta. Essere padre a volte è doloroso, a volte è frustrante, ma è la cosa più grande del mondo. Mio nonno non prese mai in braccio nessuno dei suoi figli perché era “una cosa da donne”. Quante cose si è perso…

Questo viaggio in cento anni di storia in effetti è un viaggio anche in modi diversi di vivere la paternità, vuoi per tratti caratteriali vuoi però anche per elementi culturali…

Mio nonno era del 1886, è vissuto in un periodo in cui era socialmente inaccettabile che il padre prendesse in braccio i figli. Solo mio papà, diventato ormai adulto, medico apprezzato, con a sua volta tre figli, si azzardò a sfidarlo dicendogli che non gli avrebbe più dato del lei: per tutta risposta, sempre in dialetto, ottenne un laconico «se ti conviene…».  Mio papà è stato un padre più giocherellone, era un papà divertente, però devo anche dire che per lunghi anni è stato lontano per lavoro, partiva il lunedì e tornava il venerdì, non ha mai fatto un colloquio se non una volta con la prof di filosofia l’anno in cui io mi rifiutai di acquistare quel libro di testo. Di certo non si sarebbe mai sognato di fare il rappresentante di classe… Poi aveva pure lui alcuni tratti evidentemente segnati dal fatto di esser nato nel 1939: anche lui l’ho visto piangere solo il giorno della mia laurea, proprio come lui aveva visto suo padre piangere solo il giorno della sua laurea. Per esempio aveva una voce bellissima ma non cantava mai, se non quando si distraeva: era un uomo molto controllato. Oppure il fatto che abbiamo scoperto solo mettendo ordine fra le sue cose che aveva il patentino come allenatore della Figc: non l’ha mai fatto, forse era un sogno nel cassetto…

Andrea Polo con il padre, Marco

Che cosa ha capito oggi, di suo padre?

Ad esempio la sua paura. La mia ultima sera a casa, prima di andare a Siena per l’università, mi fece una scenata per come avevo strizzato il tubetto del dentifricio… Lì per lì mi fu incomprensibile. Adesso da padre so che lui in quel momento aveva realizzato che anche io, il figlio più piccolo, stavo lasciando il nido. Fa paura vedere il più piccolo che va via, ma questo l’ho capito dopo. Come il fatto che papà avesse chiuso in un cassetto le sue passioni per mettere avanti noi. Lui non è quasi mai venuto alle mie partite di pallavolo mentre i genitori degli altri c’erano sempre: a quindici anni io vedevo questo. Ma capisco che nelle scelte importanti lui non è mai mancato, per esempio quando mi ha portato in giro per 15 giorni, per mezza Italia, a fare i test di ammissione a scienze della comunicazione. Non era scontato, anche se per me forse in quel momento lo era.  

E lei, che padre è?

Molto diverso, più presente e più coinvolto. Sono andato via di casa per andare all’università, per me è normale lavare i piatti, cucinare, stirare e aver cura dei figli. I figli si fanno in due e si crescono in due. Ci sono tanti stereotipi ancora su questo: la verità è che pure al papà resta il pensiero del bambino con la febbre. Non ci sono cose per forza materne o paterne. La prima barba per esempio me l’ha fatta mia mamma. E mio figlio grande la prima volta allo stadio c’è andato con la mamma, che è molto più appassionata di calcio di me.

A volte si dice che i nuovi papà hanno molta voglia di fare i papà… se le mamme glielo lasciano fare.

C’è del vero. Ai tempi della prima elementare di Marco, mi sono scontrato contro un inspiegabile fenomeno sui gruppi Whataspp, l’aperitivo delle mamme, quando nel gruppo c’erano anche papà. Oppure le frasi “mamme, che regalo facciamo alle maestre?”. Quando ho detto che volevo dare una mano come bibliotecario volontario a scuola, sembrava un’eresia. Una volta ho fatto un grandissimo litigio con una mamma che pensando di farmi un complimento mi disse “se lo dicessi a mio marito, non saprebbe dove sono le calze”. Non ho resistito, le chiesi: “È tuo marito che non lo sa oppure metti sempre tu le calze al bimbo perché le metti prima e meglio?”. Un po’ c’è ancora la paura reciproca di vedersi invadere un territorio, ma è una sciocchezza perché non è una gara né un me contro te: crescere un figlio è un me insieme a te.

I suoi figli che cosa hanno detto del libro?

Non mi hanno detto un granché, ma hanno sorriso. Hanno scherzato su alcune parti che parlano di loro.

Lo ha scritto per loro, quindi.

Sì, perché abbiano – come si dice sempre – radici e ali. Avevo paura che perdessero la profondità delle loro radici. Non è una serie di aneddoti e ricordi messi in fila, ma qualcosa che spero possa aiutarli a capirsi meglio.

Una parte dei diritti andranno alla Fondazione Ele Morez Ets. Di che cosa si tratta?

È una fondazione che nasce in memoria di Eleonora, una bimba che è nata poche ore prima di mio figlio: le due mamme erano nella stessa camera e così le nostre famiglie hanno condiviso tantissimo dell’emozione di quei giorni. Isabella, Matteo e Alessia, la sorella grande di Eleonora, sono stati per noi di sollievo e aiuto. Siamo rimasti in contatto con i social. A 12 anni, poi, Eleonora è mancata per una malattia del midollo. Isabella e Matteo hanno creato la fondazione Ele Morez Ets perché il sorriso di Eleonora riviva, almeno in parte, in quello dei bambini del mondo. Il racconto del mio essere papà non potevo prescindere dal fatto che ci fosse anche lei, Eleonora e il suo sorriso.


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