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Arte sociale

Da frate cappuccino a pittore di quartiere

di Gilda Sciortino

Il suo cuore ha i tanti colori dell’arcobaleno perché, quando dipinge i murales, salendo sulla piattaforma elevatrice che lo porta a metri e metri di altezza, Igor Scalisi Palminteri pensa alla bellezza che sta portando nei quartieri della periferia palermitana, da dove i bambini non sono mai usciti per visitare un museo o per entrare in una delle chiese della città storica. Nel suo lavoro ama la coralità, infatti il risultato è sempre frutto di una scelta condivisa dalla comunità, che fa scattare quella scintilla attraverso la quale le pareti dei palazzi o di pezzi di territorio cambiano volto e cominciano a offrire nuove prospettive di vita

L’azzurro è sicuramente il colore che meglio lo rappresenterebbe perché il suo è un essere che vola alto, arriva sino alle nuvole e lì fa sosta per ritemprarsi, prima di tornare tra di noi. Più che poetica, però, la vita di Igor Scalisi Palminteri deve essere considerata spirituale e, anche se non porta più il saio, la sua arte parla da sé. Aveva 20 anni quando, complice il fatto che abitava vicino al convento dei Cappuccini, comincia a entrare in relazione con i frati.

Mi sentivo frate a metà, combattuto tra l’innamoramento per San Francesco e l’esigenza di fare volare libera la mia arte

Igor Scalisi Palminteri, pittore di strada

«Ero consapevole di stare facendo una scelta controcorrente», racconta lui stesso, mentre si mette in moto per raggiungere Ravanusa, in provincia di Agrigento, per andare a realizzare un murales dedicato alla forza delle donne, «perché mentre i miei compagni, dopo il liceo artistico, cominciavano a frequentare l’Accademia di Belle arti, io guardavo altrove. La mia è stata una vera e propria cotta per San Francesco, per la rinuncia ai beni materiali, per qualcosa di divino, di spirituale; ero molto affascinato da questa dimensione. Il mio destino era in un certo senso segnato perché, abitando a un tiro di schioppo dal convento, in un quartiere vicino ma non dentro il centro storico di Palermo, ho cominciato a conoscere i frati e la gioventù francescana. Avevo la fidanzatina e l’interrogativo di quegli anni era: “Ma se mi sposo e poi non posso fare il frate….?”. Giravo un po’ tutta la Sicilia per i ritiri vocazionali e non ho mai smesso di dipingere. Tu considera che i miei fratelli più giovani, in estate, andavano a Parigi, a Londra, in altri conventi cappuccini, per imparare una lingua diversa, io invece un anno chiesi al mio maestro, Calogero Peri, oggi vescovo di Piazza Armerina, di mandarmi a Trento perché lì c’erano dei corsi di iconografia grazie ai quali ho imparato la tecnica antica delle icone. Poi, l’ultimo anno di convento, quando ancora ero frate, mi sono iscritto in accademia e ho frequentato il corso di pittura con il saio. Padre Peri mi accompagnò nella mia uscita, nonostante il suo desiderio fosse avere un frate pittore, perché capì che ero combattuto. Mi sentivo frate a metà, così lui mi invitò a capire dove pendeva quell’1 per cento che mi doveva fare scegliere tra il 50 e il 49 %. Alla fine decisi di togliere il saio perché tra i tre voti – obbedienza, castità e povertà – quello che più mi pesava era quello di obbedienza. L’idea di poter essere più autonomo, più libero in certe scelte anche più ardite, mi portavano verso nuovi percorsi. Questa ricerca di autonomia, di autogestione del mio tempo, mi ha sedotto definitivamente».

Sette anni da frate gettano le basi non solo per la vita professionale

«Anche per la mia di vita, per quello che sono diventato poi nel tempo nel bene e nel male.  L’anno scorso, insieme alla mia compagna, abbiamo fatto il “Cammino di San Francesco” percorrendo una media di   circa 14 km al giorno. Una dimensione molto spirituale, legata alla natura, che è poi quella che porto sempre con me. Ho, però, dentro di me anche una dimensione molto terrena perché ho bisogno di circondarmi di oggetti. Questo 50 e 50 è l’essenza dicotomica della mia umanità: da un lato mi attrae la povertà, l’essenzialità, la spiritualità; dall’altro, sono molto sedotto dalle cose, dalle scarpe, da ciò che produco. Questo perché al di là dei murales, io dipingo quadri che costano anche tanto. Ecco perché dico che la mia è una dimensione in bilico tra il sacro e profano».

La sacralità è alla base delle opere di Igor Scalisi. “Prendete e mangiatene tutti”, la sua prima personale

«Praticamente l’ultima cena desublimata. Esposi alla Galleria Zelle, nei pressi della Cattedrale di Palermo, che purtroppo oggi non esiste più.  C’ero io su un tagliere di legno che davo da mangiare delle stigghiole (piatto della cucina palermitana a base di budella di animale, ndr), che rappresentavano le mie interiora. Poi c’era un “San Giovanni Decollato” cyborg senza una batteria. Ho sempre attinto ai santi, a quel pozzo infinito che sono le Sacre scritture, anche per i titoli delle opere, oppure alle fonti francescane. “Sorella Acqua” è, infatti, il murale che ho ultimamente realizzato a Castronovo di Sicilia».

Grazie ai murales Igor Scalisi arriva a toccare tanti cuori

«Io già dipingevo per strada con i bambini dei quartieri, ma lo stimolo a fare di più mi è arrivato attraverso tante sollecitazioni esterne.  La prima opera, anche se non era proprio non era un murale, è stata la “Santa Morte”, a piazza Garraffello, nel mercato della Vucciria. La dipinsi su un portone di legno di un cantiere delle tante ristrutturazioni cittadine. Ha avuto una tale risonanza che da quel momento è stato un continuum. Subito dopo, in occasione della manifestazione “Mediterraneo antirazzista”, mi invitarono a dipingere quello che sarebbe diventato “San Benedetto il Moro” e lì ho finalmente capito che questa era per me la strada che mi avrebbe consentito di esprimermi in modo nuovo».

Sento che, per arrivare a superare questi anni duri, è necessario progettare e realizzare insieme. Per questo lavoro per creare connessione tra le comunità

Palermo, la città, i luoghi che più ispirano

In città l’ultimo muro è nato a Ballarò, più esattamente nella piazza dell’Albergheria, ed è stato “Cielo Antico”, dedicato al regista Franco Scaldati. Arriva dopo quello di Francisco Bosoletti ispirato alla “Natività di Caravaggio“. opera rubata dall’Oratorio di San Lorenzo a Palermo nella notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1969. Allo Sperone, invece, sono stati realizzati i maggiori interventi, ben dieci murales, e ora si sta già progettando l’undicesimo che si realizzerà prima dell’autunno andando ad arricchire questo splendido “parco d’arte urbana” della periferia palermitana».

Le periferie rimangono sempre tante isole rispetto al resto del territorio

«Io penso che, se aspettiamo le istituzioni, moriremo seppelliti dalle macerie di una non cultura.  Noi non raccogliamo soldi, non compriamo pane e acqua, non produciamo posti di lavoro. Noi non vendiamo beni di prima necessità ma, con un po’ di presunzione, tentiamo di innescare processi culturali. Questo perché la vera povertà che stiamo vivendo non è quella del pane. Ovviamente io non parlo di posti come la Palestina o di altri Paesi del mondo dove ancora ci sono bisogni primari da comare. Io parlo di innescare processi culturali che evitino di impoverirci sempre di più».

Durante la realizzazione del murale “Oltre Tutto” con i pazienti psichiatrici dell’Ospedale “Villa Sofia” di Palermo

Come vedi cambiare le persone quando intervieni in un quartiere? Cosa succede?

«Intanto avviene un corto circuito perché si innescano delle vibrazioni che sono diverse da quelle che le persone sono abituate a vivere. Per esempio “Sangu e latti”, la maternità che campeggia su un muro dello Sperone, è stata un’azione voluta  dall’associazione “L’arte di crescere” che promuove l’allattamento al seno. Può sembrare una banalità, ma è molto importante perché le case farmaceutiche che producono latte artificiale, così come certi medici negli ospedali, non favoriscono una pratica che sta nel ciclo naturale della vita. Quello che abbiamo proposto è un tema di emancipazione che innesca il processo di cui parlavo. Poi inviti le Medianeras, coppia di artiste argentine che affrontano la questione di genere, la cui storia allo Sperone arriva in maniera dirompente perché qui, se sei omosessuale, vieni giudicato e messo al margine. Per non parlare del murale che ha fatto Nino Carlotta su Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Lo hanno chiesto proprio gli abitanti del quartiere. Apparentemente può sembrare un ritratto fatto a due artisti, in realtà dentro ha dei processi specifici perché rappresenta un ragazzo di quartiere, parlo di Franco Franchi, che ce l’ha fatta, si è riscattato attraverso il lavoro; rappresenta ancora il sogno. Per non parlare di interventi come quello nel reparto del Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’ Asp di Palermo, all’Ospedale Villa Sofia, che ha portato alla realizzazione di un murale e di un’opera audiovisiva. Con “Oltre tutto“, questo il nome di questo progetto, abbiamo toccato con mano come si possono cambiare i luoghi e le persone attraverso segnali concreti di presenza attiva».

Dietro ogni muro ci sono continue occasioni di conoscenza

«Per l’inaugurazione del muro di Nino Carlotta abbiamo organizzato un talk in piazza sul senso dell’arte urbana. L ‘abbiamo fatto sull’asfalto dello Sperone e davanti a noi c’erano decine di bambini seduti con le loro mamme. Non so quanto abbiano capito i più piccoli perché a volte mancano gli strumenti di comprensione, però sicuramente non hanno sentito parlare di violenza, non hanno sentito gridare e non sono stati sgridati o picchiati dai genitori, non hanno visto persone spacciare. Sono gli stessi bambini che non sono mai entrati e non entreranno mai in un museo e forse neanche in una chiesa di quelle che si possono trovare in centro, ma quel che facciamo è in qualche modo propedeutico. Lo testimonia il fatto che, quando ha finito il murale dedicato a Caravaggio, insieme a Bosonetti abbiamo portato 50 bambini del quartiere all’ Oratorio di San Lorenzo dove si trova la riproduzione del Caravaggio rubata da da soggetti mafiosi che chissà a chi la dovevano portare. Vedere quel luogo e ascoltare quella storia ha sicuramente aperto a nuove possibilità questo bambini. I processi, certo, sono lenti, anche perché, quando lo Stato abbandona queste quartieri per 50 anni, ci vogliono altri 50 anni di attività contraria per recuperare due o tre generazioni. Noi stiamo piantando dei semini che raccoglieranno altre persone tra 10 anni».

Ma ci sono bambini che dopo i tuoi interventi stanno lì ti dicono che vorrebbero fare qualcosa quello che che fai tu cambiare la loro vita?

«Ho sempre realizzato laboratori con i minori che mi hanno dato enormi soddisfazioni, ma ne arrivano anche si inaspettate. Un giorno su Facebook, ma parlo di 25 anni fa, mi scrive una ragazza che aveva partecipato ad alcune attività con me ed era ormai granfe. «Ciao, non so se ti ricordi di me, adesso sono a Firenze e sto frequentando l’Accademia di Belle Arti. Ti voglio ringraziare perché, grazie a te, ho cominciato questo percorso». Queste sono cose impagabili. Non sai mai quanto viene raccolto, ma anche solo per una persona, per quanto mi riguarda, vale la pena. Noi non vogliamo lavorare sui numeri ma sulla costanza di questo tipo di azioni; esserci costantemente, lentamente, con molta fatica».

vita a sud

Tu ami definirti pittore di quartiere e non street artist

«Dentro la parola street art c’è tanto; è un mondo, è l’arte che fai per strada. Io mi sento pittore di quartiere e amo farlo a contatto con le persone. L’ho fatto anche fuori da Palermo, a Lecce con “Sperone 167”, nel Parco verde di Caivano con il murale “Nessuno resti solo“, solo per fare due esempi. Mi è capitato un paio di volte in questi anni di andare a dipingere anche fuori dall’Italia, ma non spingo mai volentieri questa possibilità perché per me è fondamentale creare una relazione; io non dipingo con le cuffie, sono sempre in ascolto, parlo con chi si avvicina a me», conclude Scalisi Palminteri. «Il contatto con i giovani, poi, fondamentale per me. Il 29 aprile, per esempio, inaugureremo un murale dedicato a Pio La Torre all’Iti Vittorio Emanuele di Palermo. Il bozzetto l’hanno scelto gli studenti attraverso un processo decisionale partecipativo. Avrei potuto deciderlo io, come fanno certi artisti che dicono: «Il bozzetto è mio, l’artista sono io e nessuno può dirmi che cosa fare», ma stare con  le persone, forse anche per il mio passato di frate, mi ha fatto capire che l’idea giusta è sempre quella contaminata dagli altri. Basta aprirsi alla possibilità che la realtà può essere altro rispetto a quello che abbiamo sempre pensato».

Un’arte che può aiutarci ad aprire gli occhi, a risvegliarci e darci dei colori che non sono quelli dell’abitudine, dell’assuefazione. Igor dice che l’ha imparato attraverso e grazie al confronto con gli altri, ma forse tutto questo già gli apparteneva, forse bastava solo trovare la combinazione giusta per aprire un forziere che sta regalando tanta poesia e illuminando numerosi angoli, non solo della città di Palermo, che per molti è più comodo tenere nel buio.

In apertura il primo murale “La Santa Morte” realizzato da Igor Scalisi Palminteri (foto di Aldo Palminteri). Le altre foto sono state fornite dall’ufficio stampa del pittore


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