Maurizio Drezzadore

Il legame scuola-lavoro da difendere e valorizzare

di Luca Cereda

Sull’onda emotiva di quanto successo al 18enne ucciso da una trave di acciaio nel suo ultimo giorno di apprendistato, si è innescato un moto di protesta contro l’istituto dell’alternanza scuola-lavoro. Ne abbiamo parlato con Maurizio Drezzadore, già consulente del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali

La morte di Lorenzo Parelli – il diciottenne ucciso a fine gennaio da una putrella d’acciaio nella fabbrica in cui completava la sua formazione professionale – ha riacceso il dibattito sull’alternanza tra scuola e lavoro e sul sistema duale di apprendimento. A tratti anche in modo fuorviante e strumentale, confondendo piani, mezzi e fini.

A Maurizio Drezzadore, già consulente del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali – già Consigliere CNEL e direttore della rivista dell'ENAIP "Formazione & Lavoro”, già stato consigliere di presidenza e responsabile del Dipartimento Lavoro delle Acli nazionali e Presidente di Enaip – abbiamo chiesto di partire da un dato: nel 2021 sono morte 1.404 persone per infortuni sul lavoro, di cui 695 direttamente sui luoghi di attività. Le indagini sul caso dello studente Lorenzo Parelli faranno il loro corso, ma il tema della sicurezza sul lavoro per i ragazzi deve essere imprescindibile.

Da molti anni l’Italia convive con la piaga degli infortuni e dei morti sul lavoro. Le strade intraprese per contrastare questo insopportabile fenomeno sono state molteplici, fino a definire in modo più puntuale le responsabilità penali del datore di lavoro in caso di inadempienza sulle dotazioni di sicurezza. Con la ripresa, dopo il succedersi di diversi lockdown, è riesplosa una tendenza che si era parzialmente ridotta negli anni precedenti. Soprattutto nel settore edilizio si stanno concentrando incrementi preoccupanti di infortuni sospinti dalla fretta di operare con i meccanismi del bonus 110%, col ricorso massiccio alla nascita di nuove imprese, con il reclutamento di addetti impreparati professionalmente e con l’allargamento a dismisura dei contratti di subappalto.

Allora come continuare a contrastare il fenomeno?

Bisogna agire con più controlli e più formazione di qualità. Il contesto italiano è di per sé poco attento alla formazione (solo il 7,2% degli adulti svolge una regolare attività formativa) e questo si riverbera con analoghe problematiche anche nei luoghi di lavoro. In più si consideri che fino a pochi anni fa circa la metà delle risorse dei fondi interprofessionali venivano dedicate alla formazione per la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Vale a dire che si è per lungo tempo accettato che gli obblighi di legge per le aziende di pagare la formazione fosse assolto con il concorso della spesa pubblica. Insomma si è sempre creduto poco alla formazione, anche a quella sulla sicurezza negli ambienti di lavoro; ed è proprio da qua che bisogna ripartire per un efficace contrasto agli infortuni e alle morti sul lavoro. Va ulteriormente segnalato che solo il 13% delle aziende fa formazione per i neoassunti e che in generale questa poca formazione è concausa di un uso approssimativo delle macchine di produzione.

Migliaia di ragazzi in molte città italiane gli scorsi giorni – oltre che per protestare contro la forma di maturità – hanno detto che l’alternanza scuola-lavoro è una sottrazione del tempo utile a far maturare il pensiero. Ma è davvero così?

Bisogna evitare di fare di ogni erba un fascio. La tragedia di Udine non ha alcuna attinenza con l’alternanza scuola-lavoro, avendo coinvolto un giovane frequentante il quarto anno di un percorso di IeFP, organizzato dalla Regione Friuli Venezia Giulia. In questi percorsi non si fa l’alternanza scuola-lavoro, come si contesta nelle piazze, si fanno invece, da molti anni, tirocini curriculari di almeno 200 ore annue di formazione in impresa. L’aver costruito un legame tra scuola superiore e lavoro è stato ed è un importante risultato da difendere e valorizzare, non certo da smantellare. Basta pensare ai numeri che ci riguardano come Italia per convincerci. Oltre due milioni di NEET, disoccupazione giovanile al 26%, circa un milione di posti di lavoro all’anno con difficoltà di reperimento da parte delle imprese. Tutto questo ci segnala la grande difficoltà a produrre competenze spendibili sul mercato del lavoro e ci deve sospingere ad intraprendere con determinazione la via dell’apprendimento nei luoghi di lavoro: indispensabile esigenza per non lasciare ai margini una intera generazione.

Resterei ancora sulle critiche al sistema attuale: per studenti e sindacati in piazza, l'alternanza scuola-lavoro “è un modo – parafraso alcuni slogan – che la scuola superiore ha parcheggiare i ragazzi in un’azienda privata qualunque…facendola arricchire a spese dello Stato”. Ci spiega come funziona attualmente il modello e come si è arrivati a questa soluzione?

Una riflessione seria si impone, proprio per non dare pretesto a quegli ideologismi barricaderi che ne vorrebbero minare le fondamenta. Nata nel 2015 con la Buona Scuola la versione universalistica dell’alternanza scuola-lavoro aveva una chiara identità: essere, nella secondaria superiore, una forma di apprendimento in contesto di impresa. Fu anche associata alla nascita del duale e fu possibile realizzare nell’anno formativo 2017/2018 circa mille contratti di apprendistato formativo di primo livello lungo questa filiera. Ciò fu possibile perché l’investimento orario di formazione in impresa era significativo (400 ore nell’ultimo triennio per gli istituti tecnici e 200 per i licei). Questa innovazione non ha fatto in tempo a consolidarsi che nel dicembre 2018 il Governo Conte I sopprime l’alternanza per lasciare spazio ai PCTO (percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento) con dotazione oraria di 150 ore per gli Istituti Tecnici e di 90 per i Licei. Con tutta evidenza, dal 2019 in poi, non si può più parlare di apprendimento in impresa tanto si è ridotto l’orario. L’identità ancora fragile di un istituto appena nato veniva così definitivamente seppellita. E a chi oggi si chiede a che cosa servano i PCTO non saprei dare risposta: troppo brevi per essere percorsi formativi e troppo lunghi per essere visite guidate nelle imprese.

Per queste ragioni solidarizzo con gli studenti quando si pongono la domanda a che cosa servono i PCTO? Anche se consiglio vivamente di difendere ed innovare tutte le esperienze di apprendimento dentro le aziende.

Il Pnrr, oggi, che prospettive pone a questo sistema di formazione e dove è possibile investire?

Un primo risultato il Pnrr l’ha conseguito: ha ridato centralità alla formazione, in tutti gli ambiti. Il quasi totale vuoto che ha permeato questi ultimi decenni ha accompagnato in parallelo il sonnolento processo delle politiche attive. Bisogna arrivare al 2015 con il Jobs Act per vedere in campo alcuni tentativi di rivitalizzare e l’una e l’altra, attraverso l’introduzione del sistema duale e una prima iniziale riforma delle politiche attive, che mirava soprattutto a costruire un asse cooperativo tra Centri per l’impiego e agenzie private per il lavoro. Tuttavia non c’è voluto molto tempo per poter constatare che l’avvicinamento del privato al pubblico e l’avvio di una utile cooperazione non era l’unico elemento su cui puntare e nemmeno il più rilevante. Rimaneva incompiuto il passaggio fondamentale: inserire la formazione nel percorso del placement. È quello che si propone i Pnrr (nella Missione 5) che ruota attorno alla costruzione di reti territoriali tra servizi e formazione in tal modo costruendo una cerniera tra politiche passive e politiche attive del lavoro. Seppure con molto ritardo si è finalmente creato questo modello cooperativo attraverso il quale andare ad assottigliare la platea dei disoccupati di lunga durata, che spesso abbisognano più di riqualificazione che di aggiornamento professionale. Sono circa 6 milioni le persone che stazionano per lunghi periodi fuori da ogni attività lavorativa, rendendo obsolete le competenze professionali possedute: persone in Naspi, Percettori di Reddito di Cittadinanza, di Cassa integrazione Speciale e i Neet con la quasi certezza di non poter più rientrare al posto di lavoro fino a quel momento occupato. Una platea enorme che caratterizza il nostro paese e che presuppone uno sforzo di welfare molto impegnativo e probabilmente non più sostenibile per il futuro. Ci vorranno necessariamente cospicui investimenti sia pubblici (previsti nel Pnrr) che privati per generare i milioni di posti di lavoro mancanti e per allineare il nostro tasso di occupazione (59%) alla media europea che è del 67%, tuttavia un risultato in breve tempo si può raggiungere: abbassare quel milione di posti vacanti che le imprese cercano senza trovarli seppure in mezzo ad un mare tra disoccupati e inattivi.

Può trovare nuova centralità la formazione e il passaggio costruttivo tra la formazione umana e professionale a scuola e la traduzione in pratica in azienda?

La sfida è nel dare strumenti per conseguire gli obiettivi e i traguardi del Pnrr. Senza dimenticare che l’intero ammontare delle risorse italiane del Next Generation UE ci verrà dato solo se sapremo dimostrare di aver conseguito i risultati programmati. Si tratta di fornire i servizi di base per il lavoro a 600 mila disoccupati e di sviluppare 160 mila percorsi formativi entro la fine di dicembre 2022. Si tratta di erogare i servizi per il lavoro a 3 milioni di persone e percorsi formativi per 800 mila disoccupati entro il 2025. Il primo piano attuativo 2022 le Regioni lo dovranno consegnare all’ANPAL entro la fine di febbraio e per fine marzo avranno le conferme per poter avviare le attività. Chi e come sarà mobilitato per conseguire questi risultati? Con avvisi pubblici o con voucher distribuiti ai beneficiari (modello dote Lombardia)? Come conseguire i risultati di raddoppiare i partecipanti ai percorsi formativi duali che significa creare altri 135 mila progetti individuali di formazione duale oltre a quelli già conseguiti oggi? Si ha consapevolezza che questi risultati potranno essere conseguiti sono allargando agli adulti il duale oggi circoscritto agli adolescenti? E come sarà impiegato l’apprendistato di primo livello se non si rimuove il vincolo di età oggi fissato a 25 anni? Come piegare i tirocini anche all’apprendimento curriculare?

Si sta entrando nella fase decisiva e in pochi stanno pensando agli strumenti.

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.