Luigina Mortari

La scuola? Riscopra la cura

di Sara De Carli

Luigina Mortari
Il ministro Valditara al Meeting di Rimini ha appena ribadito la sua idea di una scuola in cui «i giovani riscoprano lavoro e fatica». La filosofa Luigina Mortari nel suo ultimo libro invita invece la scuola a tornare alla sua essenza: un luogo di esperienze che nutrono l'anima, per imparare la cura di sé nel mondo e far fiorire le potenzialità di ciascuno. Senza il diktat della professionalizzazione. Una scuola della cura, che è poi l'essenza del nostro essere umani

«Educare è aver cura dell’altro, affinché apprenda ad avere cura della vita. La cura è una necessità ontologica che diventa ideale di esistenza quando la vita vuole essere fedele a se stessa». Sapete quando alle medie la prof di storia vi sgridava perché “se evidenzi tutto è come se non evidenziassi nulla”? Con il libro di Luigina Mortari succede la stessa cosa. Il libro è uscito da poche settimane per Mimesis e si intitola A scuola. L’arte di educare. Non si tratta né del solito cahiers de doléances su tutti i mali della scuola italiana, né dello stanco ritornello sul fatto che educare non è semplicemente “istruire” o “formare per il mercato del lavoro”. Non è nemmeno il libro dei sogni di come la scuola in astratto dovrebbe essere. Filosofia e pedagogia qui vanno di pari passo: non per nulla l’autrice – che insegna Filosofia dell’educazione e Filosofia della cura all’Università degli Studi di Verona – non ha mai perso il contatto con i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze che in aula ci stanno. I sentieri che traccia derivano piuttosto proprio dall’interpretare l’agire educativo come cura, ad ogni passo: e costruire su quello un’altra idea e un’altra pratica di scuola.

Qual è l’obiettivo per cui ha scritto questo libro, in un momento in cui il dibattito pubblico attorno alla scuola – dalle nuove Indicazioni nazionali al divieto di smartphone passando per il maggior peso del voto in condotta – è più caldo del solito?

Il libro non nasce in relazione agli eventi contemporanei, ma è una riflessione che porto avanti da tempo e che ho messo per iscritto sollecitata dai miei studenti del corso di scienze della formazione primaria. Io insegno da molti anni in università, ma la cosa che mi caratterizza è il lavoro di ricerca nelle scuole. Conoscendo dal di dentro la realtà delle scuole, due cose – da molto tempo – mi sorprendono e mi fanno pensare: da un lato la disattenzione totale nei confronti della scuola da parte di chi se ne dovrebbe occupare e dall’altra il continuo a parlare di scuola da parte di persone che a scuola non ci stanno, così che tutti possono dire la loro senza tener conto delle ricerche rigorose fatte nella scuola, dei dibattiti internazionali che esistono. È chiaro che tutti possono parlare di scuola ed è un bene che accada, anche perché la scuola è un tema decisivo per qualsiasi Paese: però, come diceva Platone, occorre fare una distinzione tra la doxa, che è l’opinione, e l’episteme, cioè i discorsi costruiti attraverso un’indagine rigorosa. Queste sono le due motivazioni che mi hanno spinto a scrivere il libro.

E l’ha fatto andando alla radice, interrogandosi su quale sia il compito della scuola e quindi dell’educare.

Al di là degli eventi recenti, la scuola da molto tempo ha perso il suo significato profondo. La parola scuola viene da scolè in greco, che significa ozio. La scuola è un tempo libero. Ovviamente non si intende un tempo dove nulla si fa, ma un tempo che è libero dalle preoccupazioni e dalle occupazioni ordinarie. È importante ritornare a questo concetto al momento in cui si progetta la scuola: significa che l’educazione ha senso se viene pensata rispetto alle cose più importanti della vita, non come risposta alle esigenze momentanee del tempo storico. Per Platone, l’educazione, la paideia, era la coltivazione dell’anima: una cosa che evidentemente ha a che fare con nostri bisogni fondamentali e non legata alle richieste specifiche che ci fa il mondo del lavoro in un certo contesto storico o alle pressioni sociali di un certo momento.

La scuola è un tempo libero. Ovviamente non un tempo dove nulla si fa, ma libero dalle preoccupazioni e dalle occupazioni ordinarie. L’educazione ha senso se viene pensata rispetto alle cose più importanti della vita

Pensare all’educazione come coltivazione dell’anima, però, non significa metto fuori dal tempo?

No, al contrario. È il recupero del senso profondo dell’educazione che metterà il soggetto nelle condizioni di avere una presenza consapevole nel mondo. E proprio questo è quello che secondo me si è perso oggi nella scuola. All’opposto si è diffuso un modo servile di intendere l’educazione – “servile” è ancora un aggettivo che viene da Platone – che organizza la scuola senza occuparsi delle esigenze fondamentali dell’animo dei bambini. Tra parentesi, io parlo intenzionalmente di bambine e bambini perché il tessuto fondamentale dell’educazione avviene nei primi anni della vita, quando – dice Platone – l’anima è come un grumo di cera e le prime azioni che si fanno rimangono come impronte su di esse. Ecco perché dovremmo offrire nei primi tempi della vita ai bambini e alle bambine le migliori esperienze di educazione possibile.

Che cosa significa esattamente educazione come cura e cura come essenza dell’educare?

Non sempre si è parlato di educazione come cura e tuttora ci sono molti che hanno delle resistenze a farlo. La cura, come è stato messo in evidenza da Heidegger e poi dalla scuola nordamericana, è l’essenza della vita dell’essere umano: senza cura noi non esisteremmo. C’è una cura che nutre la vita: una cura che si occupa degli elementi fondamentali, per conservarla. Poi c’è una cura che coltiva la vita, che è proprio l’educazione. E poi c’è una cura che ripara la vita, che sono le attività mediche e sanitarie. Senza queste tre attività di cura, non ci sarebbe la vita di nessuno.

Che cosa c’entra l’educazione con questo?

Se la vita ha necessità di cura e se una cura fondamentale è la cura dell’anima, per coltivarla e nutrirla, ecco che l’educazione diventa cura dell’essere dell’altro. Quindi la parola cura non ha alcun significato affettivo o emotivo, come spesso si pensa. Significa prendersi a cuore l’essere dell’altro affinché sviluppi tutte le sue potenzialità e questo richiede un grande impegno personale, cognitivo e anche affettivo: significa portare se stessi come insegnanti, nel piano relazionale.

La cura è l’essenza della vita dell’essere umano: senza cura noi non esisteremmo. Se la vita ha necessità di cura e se una cura fondamentale è la cura dell’anima, ecco che l’educazione diventa cura dell’essere dell’altro

Parlare di cura a scuola però sembra subito rimandare a una scuola affettuosa o “petalosa”. Come se chiedesse meno, se fosse più accondiscendente.

La scuola della cura in realtà è la scuola più impegnativa, tanto per i docenti quanto per gli alunni, perché è una scuola fortemente cognitiva ma anche di grande responsabilità per l’altro: la cura è faticosa e difficile. Per un insegnante non è “solo” – e dico “solo” tra virgolette – preparare le attività didattiche disciplinari, ma progettare la scuola in modo che sia piena di esperienze che nutrono l’essere dell’altro. La scuola della cura mette al centro la parola esperienza, come ci ha insegnato John Dewey: troppo spesso ci scordiamo che la scuola dovrebbe essere prima di tutto un luogo in cui offriamo esperienze, un luogo in cui “si fanno cose” dalle quali prendono nutrimento tutti gli aspetti del mio essere. A scuola abbiamo di fronte persone che sono ancora un fascio di potenzialità, che devono essere accompagnate a conoscere queste potenzialità e a svilupparle. A scuola i bambini – era scritto nelle indicazioni nazionali del 2006 – devono apprendere come nutrire se stessi.

Quindi l’educazione – immagino valga per la scuola ma anche per la famiglia e per gli altri contesti educativi – è «offerta di esperienze che sappiano far fiorire le potenzialità dell’esserci».

Ma certo. La scuola deve farsi carico dello sviluppo della persona sul piano cognitivo, ma anche su quello affettivo, perché noi siamo fatti di emozioni, che ci facilitano o ci ostacolano nell’incontro con l’altro: e sappiamo oggi quanto patiscono i giovani dal fatto che a scuola non ci sia un’educazione affettiva. Ma poi ci deve essere anche un’educazione etica, che è l’educazione alla progettazione del senso dell’essere; un’educazione estetica, che è la capacità di apprezzare ciò che è bello e di prendere le distanze da ciò che è brutto, ma anche il saper costruire il bello e decostruire il brutto. E poi l’educazione spirituale, qualcosa di essenziale perché i bambini hanno dentro grandi domande e spesso non lasciano che prendano voce perché sanno che a scuola non troverebbero spazio: ma se noi evitiamo di dare spazio a queste domande, una parte della loro potenzialità cognitiva viene meno. Attenzione, non sto pensando alla filosofia per bambini, ma al mettersi in ascolto dei bambini, accogliere le loro domande – quelle “irrispondibili” che troviamo nei dialoghi di Gregory Bateson con la figlia, per capirci – e rimetterle in circolo dentro la classe. E poi c’è la dimensione politica, cioè l’imparare a essere cittadini fra gli altri: non è solo l’educazione civica come conoscenza della Costituzione, ma è l’educazione all’altro, perché ogni bambino sappia costruire “modi di essere” che gli consentano di essere cittadino insieme agli altri, nel mondo. Altri aspetti che oggi non si possono più evitare sono l’educazione ecologica e l’educazione sanitaria.

Volessimo sintetizzare?

In sintesi, l’educazione mira all’insegnare ad aver cura di sé, in modo da non aver più bisogno del maestro: la cura di sé è cura del corpo, della vita interiore, dell’anima, della vita relazionale. L’educazione ha questo fine. Per questo parlo di una scuola come ambiente liberale: significa liberato dalle pressioni troppo legate al presente, in modo da mettere ognuno nelle condizioni di arrivare nel presente con una grande competenza di vita. Non con una competenza disciplinare, ma una competenza di vita. Invece oggi già alla scuola primaria non si lascia spazio alle cose importanti della vita.

In che senso?

Le faccio un esempio: durante un progetto di ricerca, siamo andati nei boschi a fare educazione ecologica e lì abbiamo affrontato le grandi domande della vita. Al ritorno non ho dato compiti, perché i bambini avevano vissuto domande intense. Un bambino mi ha detto: “Ma come Luigina, anche oggi andiamo a casa senza compiti?”. E io: “Qual è il problema, Cesare?”. “Poi la mamma dice che a scuola non facciamo niente”. Ecco, intendo questo quando parlo di una dilagante preoccupazione professionalizzante: il pensare che a scuola si debba necessariamente fare qualcosa che si misura e che è utile secondo il modello capitalista e consumista.

Questo “laboratorio di esperienza” che insegni la “competenza di vita” che lei descrive pare una rarità nella scuola italiana se torniamo a luglio, alle testimonianze dei ragazzi che hanno protestato non sostenendo l’orale della maturità. Fra l’altro anche lì, davanti a quelle critiche, la reazione del mondo adulto è stata che la scuola deve forgiare al mondo duro e difficile che c’è fuori e non tenere i ragazzi nella bambagia. Come risponde a queste obiezioni? La scuola della cura è una scuola che abbassa le richieste?

Guardi, la prima a parlare della centralità della cura nell’educazione è stata Nel Noddings, una docente di matematica: non c’è nulla di coccoloso. Non direi affatto, come spiegavo prima, che si abbassano le richieste: direi piuttosto che la scuola della cura pone anche “altre” richieste, quelle legate alla competenza del vivere. Che non abbassi affatto le richieste penso lo si capisca leggendo il capitolo dedicato ai “sentieri dell’agire educativo”: per esempio, parlando di educazione cognitiva, si tratta di costruire un contesto di apprendimento altamente motivante e altamente sfidante. Un insegnante deve dare speranza e fiducia, ma anche essere severo e fermo: entrambe le cose. Platone nel Teeteto a questo ragazzino pone domande difficilissime ed è in questo modo che ha cura di lui: però quando lo sente in difficoltà, gli dice esplicitamente “Abbi fiducia in te stesso, vedrai che ci riesci”. A scuola bisogna fare richieste alte, ma dando un sostegno continuo: la grande sfida è sempre quella di costruire un contesto di apprendimento facendo sì che nessuno mai si senta abbandonato. La legge 517 del 1977 parlava di classi aperte e di individualizzazione: dobbiamo tornare lì. La scuola dell’individualizzazione era un’altra cosa rispetto alla scuola delle certificazioni che diventano etichette: diceva che ciascuno ha il suo modo di svilupparsi, i suoi tempi e le sue specificità cognitive, emotive e relazionali e che noi dobbiamo offrire i supporti che consentono a ciascuno di muoversi secondo i propri ritmi. In questo modo non perdiamo nessuno. Questa è la vera scuola dell’inclusione, che tra l’altro è un’espressione che non amo: preferisco l’espressione non perdere nessuno, No Child Left Behind.

A scuola bisogna fare richieste alte, ma dando un sostegno continuo: la grande sfida è sempre quella di costruire un contesto di apprendimento facendo sì che nessuno mai si senta abbandonato

Il capitolo due del suo libro, I sentieri dell’agire educativo, “riempie” questa idea di scuola della cura con un elenco di competenza che comprendono anche ipotizzare, decidere, co-progettare, poetare.

Io preferisco abilità a competenze, perché competenza viene da competere e introduce nella scuola un atteggiamento competitivo, anzi legittima la competizione. Abilità che i bambini dovrebbero apprendere, che sono trasversali alle discipline, davanti a cui tutti i docenti insieme chiedersi poi di chiedono: “Bene, adesso come strutturiamo l’insegnamento alle nostre discipline in modo da sviluppare tutte queste abilità?”. Oggi, invece, il curriculum scolastico viene concepito per concetti da apprendere, non per abilità. Per esempio abilità importanti che spesso vengono trascurate sono la capacità di narrare, la capacità di sperimentare e sì anche la capacità di poetare. L’ho scritta non perché si è tornati a parlare di imparare poesie a memoria, ma perché essere capaci di poetare significa avere una grande competenza linguistica, avere la capaci di trasmettere in poche parole, ma estremamente efficaci, un sentimento o un’esperienza. E poi la capacità di immaginazione, che non è la fantasia – che allontana dal mondo reale – ma la capacità di ideare un mondo altro rispetto al presente e poi di progettare questo mondo altro. In una classe abbiamo fatto una ricerca insieme ai bambini sulla città che loro vorrebbero e molti bambini hanno parlato di fontane nei parchi e di capanne dove poter stare insieme per parlare: una volta che hai sollecitato i bambini a immaginare un mondo diverso, dove poter stare bene, poi devi anche chiedere loro che cosa si può fare perché questo si possa realizzare, quali sono le azioni da mettere in atto. E quindi l’immaginazione non è mai lontana dalla realtà: se viene coltivata insieme alla progettualità, anzi, mette nella realtà.

Abilità importanti che spesso vengono trascurate sono la capacità di narrare, di sperimentare, di poetare, di immaginare – che non è la fantasia

L’idea di una scuola della cura deriva, lei spiega, dal riconoscimento di alcuni tratti che ci caratterizzano come esseri umani. Alcuni di essi oggi facciamo clamorosamente fatica a riconoscerli. La fragilità, il non avere la sovranità sulla vita, l’inaggirabilità del contesto, l’essenza relazionale del nostro esserci, il desiderio di una buona vita.

Le prime parlano della cura necessaria, che dicevamo all’inizio. L’ultima fa riferimento alla tensione al bene che c’è dentro ognuno di noi: Simone Weil direbbe che ciascuno di noi ha dentro di sé un deposito di oro puro. È la tensione al bene, alla buona qualità della vita, l’eudaimonia è questa. Tutta l’educazione dell’anima, quindi l’educazione come coltivazione dell’anima, è mettere il soggetto nelle condizioni di cercare per sé una buona vita, che non è una vita di piacere. Quando si parla di felicità oggi, la leghiamo molto ai temi consumistici: eudaimonia è la possibilità di sentire un piacere puro nell’anima, quel piacere puro che viene dall’agire in modo giusto, dice Socrate. Quando si parla di eudaimonia lo si deve ricollegare all’educazione etica, che è l’educazione a cercare il bene e evitare di fare il male, perché solo da questo, socraticamente, viene una buona qualità della vita spirituale. Mettere il bambino o la bambina nella condizione di aver cura dell’anima, significa metterlo nelle condizioni non di cercare la felicità, ma di cercare una buona qualità della vita di sé con gli altri. Perché spesso il concetto di felicità è molto connotato in senso individualistico, mentre la visione relazionale della vita ti dice che una buona qualità della vita non la raggiungi tu da solo per te stesso, ma insieme agli altri.

Il libro termina con dei principi di politica educativa, otto indicazioni alla politica, essendo l’educazione un irrinunciabile bene pubblico.

Fra questi otto punti uno che mi preme moltissimo è “dare risorse alla scuola”: tantissime. In tutte le scuole dovrebbero esserci strumenti musicali, una palestra, una mensa scolastica, laboratori artistici, una riserva di risorse economiche destinate alle uscite. Uscire coi bambini e con i ragazzi, non solo andare nei musei, ma anche semplicemente camminare per la città e fare storia, geometria, geografica dentro le strade della città. Non c’è bisogno, come dire, di grandi invenzioni: c’è bisogno di tornare ad una idea di scuola che ha al centro questa nostra necessità di dialogare con l’altro, perché solo dialogando con l’altro che impariamo e arriviamo ad un mondo condiviso.

La scuola come “comunità di discorso” è questo?

Sì. È la scuola dove si mette in atto il principio di mettere gli studenti nelle condizioni di dialogare, di conversare, di ragionare insieme per imparare insieme. Perché le capacità più alte del pensiero le sviluppiamo quando viviamo in un contesto di dialogo, che è potentissimo sul piano cognitivo. Non solo ricevere e accumulare conoscenze, ma una scuola dove – attraverso la parola – io costruisco il sapere con l’altro.

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