Rifugiati

Makers Unite, l’impresa sociale cucita su misura

di Silvia Criara

Nei percorsi formativi di questa realtà nata in Olanda gli immigrati riscoprono i loro talenti grazie alla manifattura creativa e al design. Un modello virtuoso che mette al lavoro persone provenienti da ventisei nazionalità, insieme a molte aziende locali. Che adesso approda a Milano, al ritmo incalzante della macchina da cucire

Sono partiti dall’Olanda per dimostrare che i rifugiati non sono un peso per l’economia, ma una grande risorsa creativa. Così i Makers Unite hanno costruito un’impresa sociale puntando sul design.
Nei loro percorsi formativi si riscopre il proprio talento a colpi di idee e si riacquista fiducia negli altri, grazie alla manifattura e al dialogo. Un modello virtuoso che mette al lavoro persone provenienti da ventisei nazionalità, insieme a molte aziende locali. Adesso è pronto a crescere ancora e approda a Milano, al ritmo incalzante della macchina da cucire

“Quando sono arrivato ad Amsterdam era davvero difficile, soprattutto per un sarto come me, con venticinque anni di esperienza alle spalle” racconta Ramzi Al Moer, rifugiato di origini palestinesi. La svolta per lui è arrivata quando ha conosciuto Makers Unite, ha ritrovato la speranza e anche un lavoro, grazie al confronto, al dialogo, alla creazione partecipata. “Qui siamo come una grande famiglia” racconta, “parliamo, ridiamo e scherziamo mentre cuciamo insieme prodotti unici, sostenibili e di ottima qualità”. E Ramzi di strada ne ha fatta ancora molta, ora in Makers Unite ha una sua collezione, si chiama Meet Ramzi, una serie di borse in cotone sostenibile certificato.

Dietro ogni prodotto, c’è una storia.
Makers Unite è una impresa sociale nata ad Amsterdam per sostenere l’inserimento dei rifugiati attraverso la manifattura creativa e il design, per creare un palcoscenico in cui ogni comunità potesse esprimere il proprio talento, e insieme, promuovere la consapevolezza su temi caldi come l’uguaglianza e l’inclusione sociale. Al lavoro ci sono sarti, grafici, esperti di comunicazione e di web che provengono da ventisei nazioni. Ed è proprio il confronto che aiuta a sviluppare i diversi talenti professionali, a costruire la fiducia attraverso la finestra aperta della creatività, ma anche una carriera, una volta concluso il programma. Negli ultimi tre anni hanno assunto 15 dipendenti e dei loro progetti ne hanno beneficiato 170 persone. Oltre il 60% di loro ha trovato lavoro nell’industria creativa olandese. “Da social designer so di non avere una soluzione al tema delle migrazioni, ma so anche che posso aiutare a trovarla. Così, ho cercato di mettere in dialogo i creativi locali e i rifugiati, per trasformare l’emergenza in un’opportunità” racconta il fondatore e presidente Thami Schweichler, “ci eravamo resi conto che i rifugiati avevano, sì, bisogno di aiuto, ma l’impressione era che la maggior parte di loro fosse pronta per lavorare. Sarebbe stato bello trovare un’opportunità per farli iniziare subito. Quasi sempre, nei paesi europei, viene chiesto loro di aspettare, non possono lavorare, ed è una perdita di tempo. Immaginiamo se invece fosse loro permesso di partecipare al benessere della società, non solo darebbero un ritorno economico al paese, ma anche a livello sociale e culturale. L’Europa ha dato molte lezioni di come le cose non devono essere fatte, è importante discuterne apertamente, cosa succede se oltrepassiamo la porta del pregiudizio?”.

A scuola di futuro.
Tra i primi progetti dei loro Talent Lab, laboratori creativi che durano sei settimane, ci sono stati i nastri, le bandiere, le borse e gli zaini della linea da viaggio Life-Vest, realizzati grazie al recupero dei giubbotti di salvataggio utilizzati dai migranti e abbandonati poi sulle spiagge, garantendo così una nuova identità a quei tessuti e trasformandoli in simboli della speranza. Un lavoro portato avanti insieme alla ong greca Odyssea, impegnata sulle coste durante il picco dell’emergenza umanitaria. Grazie ai Creative Lab Makers Unite promuove la condivisione, l’empowerment, e la co-creazione di prodotti esteticamente belli e sostenibili, ma dà anche dritte mirate per avviare la carriera in Olanda. “L’idea di creare un progetto pilota è decollata dopo che abbiamo vinto il contest internazionale What design can do nel 2016, che quell’anno aveva come titolo The refugee challange. Partecipavano 700 progetti da tutto il mondo” dice Schweichler, “poi con gli incassi delle vendite dei nastri, il primo progetto, abbiamo avviato l’impresa sociale. È nato così il concept di Makers Unite, siamo riusciti a provare che i migranti non sono una categoria fragile, ma hanno grandi potenzialità da mettere in campo. La maggior parte di loro arriva qui dalla Siria e dall’Iran. L’età media è trent’anni, donne e uomini in uguale numero. Scegliamo chi ha un background nel settore creativo, perché se vogliamo provare a connetterli con un possibile impiego è importante avere un focus e questo è il settore in cui abbiamo sempre lavorato. Prendiamo sarti, intagliatori, fotografi, architetti, designer, stilisti”.

Oggi Makers Unite, oltre ad avere il proprio laboratorio di produzione, collabora con molti brand olandesi, perché la grande sfida è quella di essere 100% finanziati. “Più produciamo, più programmi possiamo finanziare, più persone possiamo raggiungere”, dice Schweichler, “dobbiamo prenderci cura gli uni degli altri oltre il nostro personale tornaconto economico, è importante pensare a un’economia condivisa, a un futuro sostenibile”.

Un modello virtuoso.
Ora Makers Unite è arrivata in Italia. A capitanare il progetto sono Luca Negro e Sarah Milot, dal loro studio di design a Milano. Si procede per piccoli e decisivi passi, purtroppo rallentati dall’emergenza della pandemia. “Il progetto è modulato sul modello di quello olandese, costruire una rete con ong e cooperative sociali e mettere al lavoro migranti e creativi locali, puntando sulla condivisione dei saperi e la co-creazione”, racconta Sarah Milot. La scorsa settimana sono stati al Base con il workshop Ri.cucire il futuro che ha messo al lavoro alcuni giovani studenti della Naba insieme a Spazio 3R, una sartoria sociale nata da un progetto dell’associazione Irene, che crea opportunità lavorative per chi è in situazioni di fragilità e riunisce 70 donne migranti provenienti da dodici paesi. Uno spazio di lavoro, ma anche uno spazio di condivisione, dove oltre a imparare un lavoro e una lingua, si sta insieme. Le loro creazioni si possono acquistare nel laboratorio, ma stanno anche mettendo in piedi uno shop online. I partecipanti del workshop, divisi per gruppi, hanno reinterpretato l’uso della mascherina utilizzando scampoli di tessuti offerti dalla Fondazione Canali, seguendo quattro concetti chiave: adattamento, tempo, voglia di libertà, comunità. C’è chi l’ha trasformata in una mongolfiera, chi ne ha disegnate e cucite due, in coppia, che una volta unite formano un cuore, chi ha fatto un abito per condividere idee e sentimenti senza il rischio di contagio. “Anche in questo progetto è fondamentale la commistione delle competenze, il mettere in contatto diverse realtà e associazioni, siamo tutti insieme, mettiamo in gioco i nostri talenti per pensare a un futuro con un alto livello di inclusione”, dice Luca Negro, “soprattutto in un paese e in una città come Milano, in cui la creatività è uno dei principali settori. Spesso non si ricorda il valore politico e sociale del design, molto spesso sono proprio i designer stessi a dimenticare che hanno un ruolo e una responsabilità”.

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