Alle porte di Firenze, una storica polisportiva vive il rugby come un bellissimo momento di inclusione anche di bambini e giovani con disabilità. Insieme volontari, genitori e pedagogisti dell'Università di Firenze. Siamo andati a incontrarli
A est di Firenze l’Arno incontra un torrente che dà anche il suo nome al paese di Sieci o «delle» Sieci, come dicono ancora gli anziani. Lì un gruppo di famiglie con figli, partecipa e scrive un pezzo di storia sociale, ricostruendo una comunità che vive condivide e si anima, intorno alla Polisportiva e alle squadre di rugby. Una storia che fa pendant perfetto col numero del magazine di luglio, dedicato allo sport sociale, e che potete trovare qui.
La storia di o delle Sieci incuriosisce perché Glenda Galeotti, docente e ricercatrice in Pedagogia generale e sociale presso l’Università di Firenze, racconta a VITA di un progetto con ragazzi disabili, che sono perfettamente integrati nella vita agonistica e sportiva e che questo microcosmo sta cambiando i connotati di molte famiglie.
Andiamo a cena con loro alla fine dell’anno sociale della loro squadra, in mezzo alle campagne della Valdisieve, in una sera d’estate dove le famiglie insieme ai giocatori, allenatori e addetti ai lavori sono tutti insieme a costruire anche la festa: chi cucinando, chi mettendo musica, chi mangiando e ballando. Tutti volontari. Tra loro si intravedono persone con disabilità, ma facciamo molta fatica a “isolarle”, perché isolate non sono affatto.
Tre donne a raccontare di rugby: una mamma creativa, una educatrice volontaria, una docente in piena ricerca.
La prima persona che incontriamo è la mamma da cui tutto è nato, Carlotta Brogi, fondatrice nel 2011, per necessità e per amore, dell’associazione “Unopertutti”. Una onlus creata dai genitori, professori e amici che cercano di rispondere alle esigenze delle famiglie dei bambini con disabilità psichiche e non, tra cui anche lo sport, il rugby, fino a portare qualcosa di nuovo dentro la federazione e a cambiarne le regole accelerando il fenomeno dell’inclusività. I bambini con disabilità intellettiva normalmente non hanno possibilità di giocare in squadre, se non vengono aiutati e sostenuti: ciò che VITA vi racconta, è ormai un modello che può essere esportato a tutti gli sport.
Quando all’ospedale Stella Maris di Pisa, luogo di riferimento per la neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, suggerirono a Carlotta di portare suo figlio Edoardo di sei anni a giocare a rugby, questa mamma bussò alle porte della Polisportiva suo paese; da lì iniziò una partita che dura tutt’oggi grazie alla collaborazione di psicologi e di altre associazioni presenti sul territorio. Racconta che «così come in classe, i bambini con una disabilità, vengono inclusi e sostenuti con un educatore, allo stesso modo hanno chiesto di fare con lo sport: i bambini venivano accolti nelle squadre under 6 o under 8 a seconda dell’età, allenati e accompagnati in campo insieme ai loro compagni ma con loro anche l’educatore». Questa formula ha consegnato al rugby più di cinquanta bambini che poi sono diventati grandi e alcuni hanno continuato dando vita al “collettivo Brancaleone”. L’esperienza di questi anni è divenuto progetto europeo, sono andati in Irlanda, in Inghilterra e si è creata una rete informale dove, per i bambini italiani, questo gruppo di Sieci è stato un vero e proprio progetto pilota importante per ottenere, dopo molte battaglie, regole specifiche per il rugby integrato, riconosciute a tutti gli effetti dentro le associazioni sportive e appunto, dentro la federazione». Accoglienza e inclusione non tolgono nulla all’agonismo: uno dei ragazzi cresciuto nelle giovanili qui, chiamato tra le fila della nazionale è Riccardo Bartolini.
«Come genitore», continua la Brogi, «posso davvero dire che il rugby è accoglienza: noi stavamo sempre in casa per le difficoltà di Edoardo; il “terzo tempo” del rugby, il dopo-partita, ci ha fatto uscire e abbiamo creato un gruppo di persone pronte a festeggiare, dove però io come mamma potevo finalmente stare seduta a mangiare perché so che c’è tutto un gruppo di persone che guardano Edoardo come se si fosse tutti una grande famiglia. Con questo progetto non solo il nostro bambino è andato a fare sport ma allo stesso tempo, e io e mio marito siamo usciti dal nostro guscio, siamo finalmente riusciti a mangiare fuori, avere un gruppo di amici».
E pensando a queste parole, si spiega la stranezza di questa festa dove ognuno è genitore, fratello e amico dell’altro: una collaborazione reciproca che dà sollievo alla grande solitudine in cui vengono lasciate le famiglie con figli disabili.
Le chiediamo come si sente, se c’è ancora molto da fare per essere aiutati come genitori e per aiutare persone così limpidamente bisognose. «Posso dire che il rugby ha permesso a mio figlio di non crescere solo e di stare con altri bambini. Le malattie psichiatriche sono quelle meno conosciute, invece un bambino in carrozzina lo riconosci subito! Ho ancora tante persone che insomma “me la fanno pagare”, diciamo così, lì Io ho trovato un gruppo di persone che veramente sono stati capaci di capire che Edoardo non era un bambino maleducato ma solo un bambino con disabilità». E se le chiedo degli esempi mi racconta invece quanto sono bravi i bambini fra loro a riconoscersi e a proteggersi l’uno con l’altro: «loro capiscono subito chi è in difficoltà! Noi abbiamo fatto tanti incontri con i genitori e con i bambini per spiegare cosa stavamo facendo e che lì insieme a loro c’erano dei bambini con delle gravi difficoltà: chi non voleva essere toccato, chi “alzava le mani”. Negli anni non abbiamo mai avuto nessun tipo di problema, ormai sanno che ci possono essere bambini diversi, hanno fatto sì che anche le difficoltà dei bambini cosiddetti “normali”, spesso sottovalutate, fossero affrontate: negli spogliatoi ci sono dei bambini che si vergognano del proprio corpo e venivano lasciati fare la doccia in mutande, e ne abbiamo parlato o ci sono bambini con problemi psicologici lievi e vivendo questa situazione anche loro però pian pianino hanno capito che le loro difficoltà potevano essere superate».
Ognuno è quello che è, pare dicano tutti, e così va bene. Ognuno viene chiamato per nome, nessuno è “speciale”, sono bambini, rugbisti. Ma questa storia non poteva finire con il campionato, racconta la mamma, che hanno iniziato anche a fare anche le vacanze insieme, all’Isola d’Elba, in montagna: «questo per far sì che il bambino che a giugno si vedeva sparire gli amici, non rimanesse solo in estate».
«Questo non è solo un progetto per bambini e adulti con disabilità. È un modo di intendere il ruolo della società sportiva come parte di un tessuto che attraversa il territorio»
Maria Chiara Cantini, volontaria
A Maria Chiara Cantini tocca alzare la voce perché è iniziata la musica e uno dei ragazzi, che fa il dj, aspettava questa festa da mesi. Lei è l’educatrice che fa volontariato per la polisportiva Sieci e nel tempo che regala, dopo il suo lavoro alle Acli, si occupa della progettazione sociale e dell’organizzazione dell’attività di rugby inclusivo, insieme alla attività educativa e di inclusione. E subito racconta a cosa tiene: «Questo non è solo un progetto per bambini e adulti con disabilità. È un modo di intendere il ruolo della società sportiva come parte di un tessuto che attraversa il territorio, che lega situazioni e persone offrendo spazi e opportunità per tutti e tutte. Spazi di crescita e di confronto per i bambini e le famiglie, per chiunque senta il bisogno di attivarsi e mettersi in gioco nella costruzione di contesti solidali».
Nessun pietismo
Siamo interrotte da genitori che mentre sparecchiano i tavoli, ci tengono a dire di non scrivere di pietismo, perché per loro «accogliere un ragazzo disabile è come accogliere un ragazzo e basta, che sia il loro o di qualcuno che vive accanto, è lo stesso». Senza pietismo ma con la consapevolezza che quel tipo di intervento sulla realtà è infatti l’esito di un certosino lavoro di costruzione: «dobbiamo sicuramente ringraziare la Federazione italiana rugby, il comune di Pontassieve, la rete nazionale di rugby integrato, una rete informale, nata ormai da anni, oltre a tutti i volontari» continua Cantini, «quello che stiamo costruendo è il frutto di un continuo dialogo: ricalcando il modello della scuola inclusiva abbiamo queste figure che affiancano i bambini con disabilità e lavorano insieme agli allenatori, con la finalità di portare dentro il gruppo, il bambino e far diventare la società sportiva un vero e proprio pezzo di comunità educante». È insomma un modello di sport che poi diviene un modello sociale, inserito e vivace nel territorio.
Questo progetto racconta l’educatrice «ci ha costretti a ragionare tanto sugli aspetti educativi della nostra proposta, insieme agli atleti, insieme alle famiglie. Ci siamo interrogati sul linguaggio, sul rispetto, siamo potuti intervenire in dinamiche di bullismo che si erano verificati all’interno degli spogliatoi come succede in diverse realtà, abbiamo lavorato sull’educazione dei genitori sugli spalti, che spesso sono uno spettacolo poco edificante, lavoriamo ogni giorno sul fatto che senza l’avversario non c’è partita e quindi l’avversario fa parte del gioco esattamente come i compagni e le compagne di squadra. È un mondo complesso da spiegare, certamente non si tratta appena di attività per i bambini con disabilità è qualcosa di molto più profondo che ha un’incidenza sociale totale, nella famiglia, nella scuola, sui genitori, nell’uso del tempo libero. C’è dentro l’idea di un mondo che sia alla portata di tutti e che si è in grado di accogliere: il rugby è uno sport che di base si fonda su dei valori che si prestano alla realizzazione alla costruzione di una comunità veramente inclusiva».
Questo terzo tempo, dove si cena insieme ogni fine partita, è poi il momento dove tutto confluisce e che ripaga di ogni fatica.
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Ancora Cantini racconta: «Ho sentito una sfida e in più vedendo degli amici e conoscere persone con disabilità e toccare con mano che cosa significhi l’esclusione, che cosa significa il doversi tutti i giorni ingegnare per cercare di vivere una vita sociale, noi questo terzo tempo lo viviamo alla Polisportiva. Educativamente parlando, questa modalità dà modo alle persone di avere una rete intorno, una rete amicale, solidale e quindi di non essere soli a combattere le battaglie nel mondo è indispensabile. Abbiamo lo psicologo che è un operatore professionale, educatori, colloqui continui con le famiglie e tutto quanto metodologicamente possiamo introdurre; ci confrontiamo sulle reazioni, sui comportamenti più che sulla diagnosi e lavoriamo sui punti di forza». Rispetto alle difficoltà, racconta le stesse per tutti: «abbattere le barriere architettoniche, i problemi economici, il poter sostenere le quote, aiutare le famiglie coinvolte, ma anche trovare gli strumenti o le sponde giuste per lavorare sulla progettazione».
Li lasciamo ai loro tavoli pieni di racconti, aggiornamenti sportivi, allegria, cibo e musica altissima da ballare. Queste famiglie non si risparmiano nulla e vivono una condizione di prova che invece di rinchiuderli li ha educati all’accoglienza e all’inclusione, senza pietismi, ma in mezzo alle corse di una squadra di rugby che gioca il suo campionato senza lasciarne indietro nessuno. Uno per tutti!
Un caso da studiare
Glenda Galotti è ricercatrice presso il dipartimento di Formazione, Lingue, Intercultura, Letteratura e Psicologia dell’Università di Firenze. Da oltre 10 anni studia strategie e setting per l’inclusione sociale e formativa. Su questo tema ha realizzato attività di ricerca in Europa e America Latina. Negli ultimi anni si dedica alla ricerca formativa per l’innovazione organizzativa e sociale. Per tale ragione si è avvicinata all’esperienza del Valdisieve Rugby, dove contribuisce come volontaria alla progettazione educativa e su bandi di finanziamento.
«Guardo all’esperienza del Valdisieve Rugby, sia come professionista dell’educazione e della formazione sia come cittadina», racconta la professoressa Galeotti, «è indubbio il rimando al faticoso lavoro per la costruzione di comunità di senso e di azione, dove chiunque ha e può trovare la propria collocazione. Ben oltre la pratica sportiva proposta, in questo spazio generato dall’immaginazione e dell’azione collettiva le capacità di ciascuno sono al servizio del bene comune e del cambiamento culturale e politico. Qui lo stimolante – e a volte conflittuale – confronto con la diversità decostruisce la categoria di alterità, la quale non ha una definizione sostanziale ma è sempre inserita in una relazione di potere».
L’inclusione – o l’integrazione come dir si voglia – è in effetti un viatico per ripensare e ridefinire i legami sociali e affettivi basati sui valori dell’accoglienza e della cura, osserva la professoressa, «ma anche e soprattutto sulla possibilità di sperimentarsi e sperimentare la libertà di essere nel mondo. Di fatto, parafrasando Amartya Sen, la libertà delle persone – e conseguentemente la giustizia sociale – è data dalle combinazioni possibili e alternative dei funzionamenti quali manifestazioni delle capacità di ognuno, e dunque una libertà sostanziale di poter agire».
Le foto di questo servizio sono di Chiara Leoncini.
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