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L'arte che cura

Se il medico in ricetta prescrive cultura

di Alessio Nisi

Arte e cultura stanno diventando strumenti di lavoro per chi si occupa di fragilità. Si chiama welfare culturale e la sua efficacia è stata riconosciuta anche dall'Oms. Questo dialogo con Annalisa Cicerchia, docente di management delle imprese culturali e vicepresidente del Cultural Welfare Center, avvia una serie di racconti. Sorprendenti

Il welfare culturale è un modello multidisciplinare che studia e valorizza il rapporto tra cultura e salute, con l’obiettivo di promuovere l’effetto positivo della cultura e dell’arte sul benessere individuale e collettivo in una prospettiva di equità sociale e sviluppo sostenibile. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto l’efficacia di alcune specifiche attività culturali, artistiche e creative, come fattore di promozione della salute, di benessere soggettivo e di soddisfazione per la vita, in forza dei suoi aspetti relazionali, e potenziamento delle risorse (empowerment) e della capacità di apprendimento, di contrasto alle disuguaglianze di salute e di coesione sociale per la facilitazione all’accesso e lo sviluppo di capitale sociale individuale e di comunità locale, di invecchiamento attivo, contrasto alla depressione e al decadimento psicofisico derivante dall’abbandono e dall’isolamento. Di inclusione e di empowerment per persone con disabilità anche gravi e per persone in condizioni di marginalizzazione o svantaggio, anche estrema.

L’Oms ha riconosciuto inoltre al welfare culturale il valore complementare di percorsi terapeutici tradizionali e di supporto alla relazione medico-paziente di supporto alla relazione di cura, anche e soprattutto per i carer non professionali. E infine come modello capace di mitigare e ritardare alcune condizioni degenerative, come demenze e morbo di Parkinson.

Per parlare di welfare culturale non basta dire «sbrigativamente che l’arte e la cultura fanno bene. Quello su cui noi lavoriamo è un ambito più ristretto e specifico», spiega Annalisa Cicerchia, docente a Uniroma2, università di Tor Vergata, di management delle imprese culturali e vicepresidente del Cultural Welfare Center. Questa realtà, spiega, «è nata per iniziativa di Catterina Seia, simbolicamente, il primo giorno del lockdown. Cerca di promuovere l’emersione di questo mondo e di formare il maggior numero possibile di operatori della sanità del sociale e della cultura per incontrarsi e dialogare, di far circolare idee, esperienze, opportunità di finanziamento e di diffondere gli strumenti più adatti».

Parlare di welfare culturale non è dire sbrigativamente che l’arte e la cultura fanno bene. Quello su cui noi lavoriamo è un ambito più specifico

Effetti sulla longevità

Come hanno dimostrato gli studi fatti nei paesi scandinavi alla metà degli anni Novanta, «una ricca e intensa vita culturale e artistica (non necessariamente ricca nel senso di costosa, ma quella di chi si alimenta ad esempio di suonare uno strumento musicale, leggere molti libri, cantare in un coro) ha effetti significativi addirittura sulla longevità delle persone». Una vivace vita culturale rafforza insomma le capacità dell’individuo di fronteggiare l’esistenza e le rende più robuste. «È come come essere alimentati con tutti i principi nutritivi. Una dieta culturale ricca mette continuamente alla prova le capacità intellettuali, l’apprendimento di nozioni, la sperimentazione, la fantasia, la capacità di relazione», racconta Cicerchia.

Arts on prescription

Tutto questo è molto più vero in un contesto di non benessere, di malattia e di fragilità. Sperimentato da almeno tre decenni in Nord Europa, nel Regno Unito e più di recente in Canada, il welfare culturale conta, tra le sue esperienze più rilevanti, proprio quella del Regno Unito, che si è realizzata attraverso Arts on prescription. Il programma si fonda sulla convinzione che la partecipazione a un’attività creativa possa promuovere la salute e il benessere e che faccia parte della più ampia categoria delle prescrizioni sociali attraverso le quali gli operatori sanitari o gli assistenti sociali indirizzano le persone a servizi o a sostegni di tipo non medico, per esempio ad attività di esercizio fisico o alla lettura di libri.

Più cultura e meno antidepressivi

Una prescrizione sociale? «Sì, la possibilità», spiega Cicerchia, «di accompagnare le terapie tradizionali, in qualche caso anche sostituirle, con attività di tipo culturale o artistico».

Arte anziché antidepressivi? «I laboratori creativi di canto per esempio sono molto efficaci contro la depressione e hanno un impatto elevato. Ecco, io direi: un po’ più di arte e un po’ meno antidepressivi. Il nostro tentativo va nella direzione di incoraggiare il più possibile un approccio mirato e realistico alle cose». In questo quadro, precisa, è molto utile il lavoro dell’Oms, «che in un rapporto del 2019 individua quattro aree in cui il contributo delle arti e della cultura è dimostrato da una molteplicità di studi (circa 3mila)». QUI il report completo tradotto in italiano dal Cultural welfare center.

Benessere e prevenzione

La promozione. Le prime due aree si riferiscono alla promozione e alla prevenzione. I risultati dello studio dell’Oms hanno documentato come le arti possono: influenzare i determinanti sociali della salute (ovvero quei fattori che più influenzano lo stato di salute, oltre al patrimonio genetico e all’accesso a sistemi socio-sanitari di qualità: il livello di istruzione, il reddito, l’occupazione, l’ambiente in cui si lavora e si vive quotidianamente), sostenere lo sviluppo del bambino, incoraggiare comportamenti che promuovono la salute, aiutare a prevenire le malattie e supportare l’assistenza e la cura. La «promozione della salute è», sottolinea Cicerchia, «un po’ la cenerentola delle quattro. È un’iniziativa a lunghissimo termine: se investo infatti nell’irrobustimento culturale dei bambini di adesso ne vedrò i risultati tra 10-15 anni e nessun politico è interessato a quello che succederà tra 10-15 anni, purtroppo».

La prevenzione. In tema di prevenzione Cicerchia spiega che «la salute può giovarsi della cultura e dell’arte in forme molto diverse. Ci sono dei modi di comunicare più efficaci, più diretti, meno complicati e più a bassa soglia, meno tecnici, con contenuti importanti. Consideriamo che, mediamente, nell’Unione europea si spende in prevenzione il 2% della della spesa sanitaria per paese. L’Italia era un paese un pochino più virtuoso: fino a qualche anno fa spendeva il 4%. Parliamo in ogni caso di poco». Poi ci sono le aree che interessano la gestione e il trattamento.

L’impatto sulle malattie neurodegenerative (e sui caregiver)

Per quanto riguarda la gestione e il trattamento, i risultati dello studio hanno evidenziato come le arti possono aiutare le persone che soffrono di malattie mentali, sostenere le cure per le persone in condizioni acute, sostenere le persone con disturbi neuroevolutivi e neurologici, contribuire al trattamento di malattie croniche degenerative e concorrere all’assistenza nel fine vita.

La gestione. «La gestione», precisa Cicerchia, «è un aspetto molto importante del welfare culturale». In particolare, «malattie degenerative o malattie non trasmissibili come Alzheimer o Parkinson possono essere non arrestate, ma un po’ rallentate, ma soprattutto possono essere gestite e ridotte nella loro parte più dolorosa in termini di impatto». Qualche esempio? «Penso all’aggressività, che spesso nasce dalla disperazione e dalla condizione di incomunicabilità delle persone con Alzheimer», spiega. «Ecco, una grande mole di documentazione indica che alcune esperienze culturali, appositamente studiate per essere di aiuto a questa condizione (penso ad attività di laboratorio museale, per esempio), possono essere di aiuto anche per chi (spesso in una condizione di burnout) si prende cura di queste persone. Parliamo di piccoli, piccoli passi. È chiaro, non di una panacea».

Alcuni studi inglesi dimostrano che almeno il 20% delle richieste al medico di famiglia, soprattutto da parte di persone sole e anziane, potrebbero essere affrontate anche in questo modo 

Il trattamento. In questo momento, sintetizza la vicepresidente del Welfare cultural center, «abbiamo la consapevolezza che di fronte ad alcuni problemi e sofferenze, peraltro di difficile gestione (come quelli legati all’invecchiamento e al decadimento cognitivo), le persone possano trovare una risposta che non tenevano in conto», spiega. «Questo non vuol dire che il trattamento medico sia superato. Però è vero che, come dimostrano alcuni studi inglesi, almeno il 20% delle richieste al medico di famiglia, soprattutto da parte delle persone sole e anziane, potrebbero essere affrontate anche in questo modo». 

La formazione degli operatori

C’è anche un tema legato alla formazione degli operatori culturali, «potenzialmente depositari di una serie di strumenti che possono migliorare il benessere delle persone. Certo, non tutti». Ci sono delle situazioni «straordinariamente rilevanti. Penso alle biblioteche, che sono per loro natura servizi del territorio, penso alle realtà dello spettacolo, del teatro, della danza, ai centri musicali. In Italia abbiamo 61mila enti non profit che lavorano nell’arte e nella cultura. Già loro hanno una forte vocazione di tipo sociale. Sappiamo benissimo che in molti casi questi operatori vivono in condizioni molto difficili, con risorse molto scarse e con una una disponibilità di strumenti tutto sommato modesta, però sì, potrebbero orientarsi e aggiungere questa funzione a quelle che già svolgono». 

Welfare culturale, a che punto siamo in Italia?

In questo quadro, lo scenario italiano non presenta, a oggi, politiche nazionali dedicate al welfare culturale, ma realtà territoriali e reti locali sì. «Manca un sistema. Bisogna tenere presente che cultura e salute in Italia fanno riferimento a 20 “repubbliche” diverse», dice Cicerchia. C’è inoltre un grande problema di «gradiente tra Nord e Sud. Prendiamo una realtà come il Piemonte, che ha alle proprie spalle un investitore sociale fondamentale come la Fondazione Compagnia di San Paolo, che non c’è in altre regioni. In Toscana Fondazione Monte dei Paschi di Siena lavora da tanti anni su questo tema. Dove non ci sono investitori sociali importanti, c’è l’iniziativa pubblica: in Toscana per esempio spesso è stata la regione a sostenere iniziative di welfare culturale. Dove c’è meno presenza di questi operatori, resta un bel mosaico di iniziative, ma non un sistema».

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Il sistema Musei toscani per l’Alzheimer

«In Italia», spiega inoltre la docente, «si fa molto, ma con fortissime differenze territoriali. Un fiore all’occhiello per il nostro Paese è la rete dei circa 60 Musei toscani per l’Alzheimer che si sono dati un percorso di serietà estrema. Un percorso che che si è ispirato ad un’esperienza fatta al Moma di New York. Diversi anni fa, hanno lavorato attraverso un programma Erasmus Plus per mettere a punto strumenti di formazione e una sorta di manuale». Cicerchia si riferisce nel caso specifico a «storici dell’arte, curatori ed educatori museali, che lavorano in rapporto con i geriatri, ma che non sono figure ibride», continuano cioè ad occuparsi di cultura. «Questa realtà si è allargata, ha creato un metodo e questo metodo lo sta mettendo a disposizione di chi è interessato. Ci sono state acquisizioni a Reggio Emilia e in altre realtà che sono andate a imparare da loro».

Uno “sciroppo di teatro” per 20mila bambini

Tra le esperienze Cicerchia cita ad esempio «Sciroppo di teatro, un’invenzione geniale di Patrizia Ghedini, realizzata quando era presidente di Ater Teatro Emilia Romagna». Il progetto, presentato nel 2021, coinvolge 153 pediatri e 236 farmacie per la prescrizione di spettacoli teatrali ai bambini e alle bambine e la distribuzione di voucher per l’accesso al teatro ad un costo simbolico. «Patrizia Ghedini», precisa Cicerchia, «è partita dalla constatazione che due sono state le principali “vittime” del lock-down: i bambini, rimasti chiusi e isolati dalle relazioni e dalla scuola, e le compagnie teatrali, che durante l’emergenza pandemia sono state veramente a terra». Una «idea geniale e difficilissima nella sua costruzione», nata da un lavoro molto intenso «nel raccordo tra diversi settori».

Fondamentalmente «grazie a uno “sciroppo di teatro”, si va a teatro su ricetta del pediatra. Si prendono i biglietti in farmacia e c’è la possibilità di andare bambino e accompagnatore al prezzo di 2 euro. Ovviamente parliamo di una realtà come l’Emilia-Romagna dove c’è una rete di teatro ragazzi importante, con tante farmacie che hanno partecipato. Un’esperienza cui ha aderito anche l’ordine dei pediatri e che in meno di due anni ha raggiunto le 20mila presenze».

Dance well a Bassano del Grappa

Questa esperienza, certo un po’ sotto traccia, si sta facendo strada anche altrove. Anche la rete dei Teatri di Roma ha uno Sciroppo di teatro. «Non so quanto pediatri della città però lo sappiano». C’è un’esperienza analoga «anche in provincia di Bolzano». A Bassano del Grappa la docente segnala «Dance well, un progetto sviluppato dai Musei Civici che utilizza la danza per persone affette da Parkinson, che lavorano con soggetti che il Parkinson non lo hanno: il ballo viene portato a misura, ma risulta al tempo stesso piacevole e praticabile per gli altri».

Così nell’Unione Europea

Con la Nuova Agenda Europea della Cultura, nel 2018, la Commissione Europea ha introdotto un principio fortemente innovativo, indicando come pilastri delle politiche delle prossime decadi i cosiddetti crossover culturali, ovvero la necessità di creare o rafforzare relazioni di sistema tra la cultura e altri ambiti, tra cui la salute, per affrontare le nuove sfide sociali. 

Per supportare questo indirizzo, nel 2021 la Direzione Generale Cultura e Educazione ha lanciato l’Azione Preparatoria Cultura per la Salute funzionale a individuare le migliori modalità per sostenere progetti di integrazione tra cultura e benessere. «A livello di Commissione Europea», ricorda Cicerchia, «ci sono state figure come Pier Luigi Sacco, uno dei nostri fondatori, che hanno contribuito ad affermare la necessità di un dialogo. L’anno scorso proprio la Commissione Europea ha dedicato una edizione di Voices of Culture (piattaforma di dialogo tra la Commissione Europea e la società civile), alla salute mentale dei giovani».

È partita inoltre Culture for Health, un’operazione di «aggiornamento degli studi in materia di welfare culturale che è stato anche una sorta di grande inventario delle esperienze in atto in Europa». I risultati parlano di circa 700 realtà. «Va detto però che è un inventario fatto su base volontaria e in inglese: quest’ultimo elemento ha tagliato fuori molti paesi e non ha garantito ad esempio una mappatura italiana completa. Di queste attività possiamo contarne in ogni caso una settantina su 700, circa il 10%, con variabilità territoriale molto molto forte».

Le tappe del racconto

Ecco le prossime tappe del viaggio di Alessio Nisi nelle esperienze di welfare culturale italiano: non perdetele!

  • Simone Schinocca, assistente sociale teatrante e la compagnia Tedacà
  • Giovanna Sfriso, operatrice di circo sociale della Fondazione Uniti per crescere insieme
  • Il Sistema Musei Toscani per l’Alzheimer
  • A teatro con la ricetta del pediatra, con Sciroppo di Teatro

In apertura foto di Norbert Braun per Unsplash. Nel testo la foto di Annalisa Cicerchia è da Cultural Welfare Center. A seguire, immagine di Tiago Muraro per Unsplash e di Pixabay


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