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Donne

Le  voci di donne migranti che rompono lo stigma di vittime

Un progetto che, attraverso una residenza d’artista, è riuscito a connettere a Palermo le esperienze di vita e professionali di quindici donne provenienti da diversi paesi europei. Lo ha promosso il collettivo femminista “Women’s Voices”, dimostrando il valore di una narrazione che esalta la forza delle donne che attraverso l’arte, la parola e la condivisione combattono lo stigma di vittime

di Gilda Sciortino

Si può oggi essere oggi una donna migrante senza essere considerata necessariamente proveniente dalle condizioni più periferiche e disagiate del mondo?

Le donne con background migratorio hanno la forza di narrarsi non più succubi del patriarcato

– Daria Lo Bello, collettivo femminista “Women’s Voices”

Sicuramente, se parliamo di donne desiderose di uscire dallo stigma che le tiene ai margini della società, dimostrando di volere dialogare attraverso la pluralità di linguaggi artistici che consentono di abbattere ogni barriera. A offrire queste occasione è stata la residenza artistica a cui, da settembre a dicembre 2022, ha partecipato il collettivo italo-franco-tedesco collettivo femminista “Women’s Voices”, composto dalle ricercatrici Charlotte Koch, Ségolène Bulot e Daria Di Bello. Una delle fasi della programmazione culturale di Kultur Ensemble curata dal Goethe Institut Palermo e dall’Institut français Palermo, che  ha portato a un’estemporanea frutto del loro impegno artistico, culturale e civile. Prodotto finale? Una serie di podcast a più voci che saranno ospitati dai siti delle due istituti di lingua straniera che hanno sede nel capoluogo siciliano.

Bambino Wichi , Ovest di Formosa, Argentina (foto di Diana Quiroga)

«Il progetto di ricerca artistico culturale grazie al quale ci siamo incontrate e ritrovate io, Charlotte e Ségolène» – spiega Daria Di Bello, che sei anni fa ha lasciato Taranto e oggi fa la ricercatrice culturale in Germania, tra Berlino e Lipsia -,  «ci ha portato a pensare a questo spazio digitale che ha come protagoniste quindici donne con background migratorio residenti a Palermo per portare avanti la  loro arte e dare voce a un impegno civile e politico che non ha confini. Volevamo sfidare la narrativa che vede le donne relegate nelle periferie della società, chiuse tra le mura delle loro case, tenute lontane dalla cultura e dalla produzione occidentale. Abbiamo incontrato donne meravigliose, ognuna delle quali portatrici di valori, importanti perchè unici, pronte a lottare contro i pregiudizi. Come le donne della Consulta delle Culture di Palermo o quelle delle associazioni “Fatima” e “Benin City”, impegnate anche  sul fronte della lotta alla tratta. Oppure come quelle del “Women and Girls Safe Space”, centro diurno in cui le donne, anche in questo caso con background migratorio, hanno la possibilità di ritrovarsi al di fuori delle pareti di casa, partecipando ad attività di empowerment decise da loro stesse. Realtà indispensabili non solo per il territorio palermitano».

Daria Di Bello, Charlotte Koch, Ségolène Bulot (foto di Mathia Coco)

Quando migri vivi lo stigma che subisce chi lascia la propria terra e adotta un’altra cultura

Una narrazione, quella che il collettivo femminista “Women’s Voices”, vuole cambiare raccontando le donne non più come vittime della società, ma mettendo in risalto e connessione le loro capacità.

«Non abbiamo scelto donne di Palermo ma donne che hanno scelto questa città per costruire un pezzo della loro storia» – aggiunge Di Bello -. «Io, per esempio, sono andata via dall’Italia perchè volevo Anche la letteratura scientifica accademica ci mostra come le donne migranti siano doppiamente soggette a diverse forme di discriminazioni, dal sessismo al razzismo sino al classismo. Io scappata sei anni fa dalla Puglia per allargare i miei orizzonti culturali, accademici e lavorativi. In Germania sono diventata ricercatrice culturale. Sono anch’io una sorta di migrante, infatti mi immedesimo nelle altre donne perché, quando vai via dalla tua terra vivi lo stigma che appartiene a queste dinamiche. Essere migrante è qualcosa che si insinua nella vita di tutti i giorni quando si verifica un evento discriminatorio o quando vivi la tua vita tra due mondi, con la tua lingua madre e quella che ti ospita, Per nulla facile orientarsi».

Una delle azioni performative del progetto (foto Mathia Coco)

Yulan, Diana Quiroga, Ana Afonso, Yeoran Lee, Maria Laura Cáccamo, Ingrid Lua, Dasililla De Oliveira Pecorella sono sette delle quindici donne che hanno avuto modo di portare la loro arte in una serata che, attraverso l’arte performativa, ha levato alta la voce di donne che non ci stanno a passare per vittime, ma che sono comunque presenti per tutte quelle che non hanno la forza di esprimere sé stesse.

Ci sono quartieri, come lo Zen 2 di Palermo, ancora oggi percepiti come mondi a parte

«È stato bello ritrovarsi insieme provenendo da diverse parti del mondo» –  racconta Diana Quiroga, argentina da 20 anni residente nel capoluogo siciliano, che all’interno di questo percorso ha presentato un corto sul quartiere Zen 2 di Palermo e una mostra fotografica sulle donne della sua terra –. «Ogni volta che torno nel mio Paese cerco di cogliere e raccontare la parte antropologica delle comunità. Quel che mi piace e interessa raccontare di Palermo sono le questioni sociali che si animano al suo interno. Me ne sono sempre occupata sia come documentarista e regista sia collaborando con le donne dell’UdiPalermo, Unione Donne Italiane, o altre, insieme alle quali raccontare percorsi di emancipazione. Il corto che ho realizzato allo Zen 2 (https://vimeo.com/775921608) nasce dalla mia curiosità di capire un quartiere da tutti considerato l’esempio della marginalità sociale. Purtroppo, allora come oggi, le stesse persone che lo abitano non si sentono appartenere a una comunità, percepiscono di essere scollegate al resto della città. Avevo conosciuto tanti ragazzi, molti dei quali li ho intervistati, ma dovevo capire ancora di più.  Un mondo che non è primo mondo e somiglia molto a quello da cui provengo, argentino e sudamericano, la cui povertà è molto radicata.  Da quel momento ho cominciato a realizzare documentari grazie ai quali raccontare il bello che c’è anche nel brutto. Certo, mi piacerebbe tornare venti anni dopo nel quartiere per vedere cosa è successo a quei bambini e a quelle bambine, ma ho paura di non toccare con mano alcun cambiamento».

Il bello delle donne passa attraverso le tante voci, espressione di gioia, dolore, compassione, determinazione. Donne che rifiutano lo stigma di vittime unendo quelle fragilità che rappresentano la loro forza, propulsiva e positivamente contagiosa contro tutti gli stigmi.

In apertura nonna con bebé QOM – Formosa, Argentina (Foto di Diana Quiroga)