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Arcigay diventa soft

Meno rivendicazioni, più dialogo. Paolo Patané spiega il nuovo stile della battaglia per la parità

di Sara De Carli

Venerdì 9 marzo, pochissimi giorni prima che il tema tornasse a infiammare il dibattito tra politici e opinionisti, non c’era traccia di matrimoni gay nella relazione che Paolo Patané, presidente di Arcigay, ha tenuto davanti al Consiglio Nazionale. Al centro dell’attenzione di Patané c’era invece la preoccupazione per la «regressione del welfare» e la volontà di «declinare diversamente» le rivendicazioni degli omosessuali. La svolta soft di Arcigay si misura negli aggettivi: un piano «dialogante» con la società, «differente, ma in sintonia con il Paese», correlato «all’obiettivo del consenso sociale». Addio piume, lustrini e carri del Gay Pride. Ecco come Paolo Patané spiega la svolta.

Cominciamo da Lucio Dalla: è stato ipocrita o la sua discrezione è solo sintomo di una maggiore accettazione sociale, per cui non è necessario ogni volta rivendicare la possibilità di essere una coppia dello stesso sesso?
Lucio Dalla non può essere definito un ipocrita. Ha vissuto la vita che sentiva di vivere per come se la sentiva di vivere, ha provato – come tutti – a realizzare il suo modo di vivere la libertà. Dopodiché sarebbe bello se chi dalla vita ha avuto tanto riuscissero a spendere qualcosa della propria fortuna per le battaglie civili. Sarebbe bello, ma se Dalla non lo ha fatto non è certo una colpa.

Né colpa né virtù?

Sì, perché ciascuno ha il diritto di narrarsi per come ritiene, ma non sono d’accordo con Vespa quando dice di aver apprezzato proprio questo “non farne una bandiera”. Dimentica che le grandi battaglie per la giustizia e la libertà richiedono coraggio. Il coraggio non si può imporlo a nessuno, ma è doveroso riconoscere il merito a chi il coraggio ce l’ha. Altrimenti il mondo non cambierà mai.

Infatti avete fatto il paragone con Rosa Parks. Però arriva anche un momento nella storia in cui chiunque “si siede dove vuole” e basta, senza bisogno ogni volta di fare una rivendicazione.
Già, ma fuori di metafora in Italia non siamo ancora giunti a questo momento. La possibilità di vivere insieme in modo ordinario, per una coppia dello stesso sesso, c’è. Ci sono contesti più difficili di altri, d’accordo, ma sull’ordinarietà il problema non si pone, perché lì ciò che conta è il consenso sociale. Quindi stare insieme, dividere una casa, anche avere dei figli… oggi è possibile. Ma quando arrivano i problemi il consenso sociale non basta, lì serve la tutela della legge. La società ci riconosce ma il legislatore no e questo pesa quando si passa dalla quotidianità ai momenti critici della vita.

Come mai il suo discorso al Congresso era disseminato di aggettivi «dialoganti» anziché di toni rivendicativi? Arcigay cambia pelle?
Sì, è un cambio di tono, di immagine, di comunicazione. Noi stiamo ragionando su tre livelli. Il primo è quello di fare un punto di forza della nostra capacità di una vita “normale”, riconoscibile a tutti perché è come quella di tutti. È il caso della nostra ultima campagna, “Diversamente uguali. Storie di ordinaria diversità”, che punta sul permette a ciascuno di riconoscersi e di abbattere quel senso di distanza che a volte viene strumentalizzato. Il secondo punto su cui stiamo molto lavorando è sull’elevare il tono. Non vogliamo solo normalizzare l’immagine, ma depurare la comunicazione dai toni aggressivi, puntando a comunicare la nostra rivendicazione di diritti non più con slogan ma per immagini o per argomentazioni. Perché siamo convinti che questa sia una battaglia giusta, non solo riconoscibile dalla società ma anche condivisibile dalla società. Pensiamo sia sbagliato ragionare per slogan e affermazioni enfatiche, ma che diventi sempre più importante l’argomentazione e il mostrare la vita per com’è.

Il terzo livello?
È collocare la battaglia per l’eguaglianza – perché di questo si tratta – nel suo contesto storico. Stiamo facendo uno step di una battaglia iniziata in Europa due secoli fa, che ha visto protagonisti di volta in volta le donne, gli ebrei, le persone di colore, le religioni… oggi tocca a noi. Tocca a noi combattere questo step della battaglia per l’eguaglianza. Messa così si evidenzia che questa è una battaglia che facciamo noi ma riguarda tutti, perché il bene dell’uguaglianza – chiunque lo conquisti – è patrimonio di tutti e per tutti.

Come definisce questa svolta?

È una questione di consapevolezza. Soprattutto abbiamo smesso di considerare come unico parametro il consenso della stessa comunità LGBT. Il nostro punto di riferimento non possiamo essere noi stessi, ma deve essere l’opinione pubblica nella sua generalità, il paese nella sua complessità. Questo ti porta a ragionare e a parlare in modo diverso. A noi interessa il risultato: e questo è un altro dato che connota oggi Arcigay. Non è necessario sempre sbandierarlo e farne un trofeo da esibire politicamente. Oggi è importante la capacità di ottenere risultati stando dietro le quinte. Non tutto deve essere esibito per rimarcare una rivendicazione.

Su Vita in edicola, insieme alla riflessione di Paolo Patané, un’inchiesta su quante sono e come vivono le coppie dello stesso sesso in Italia.


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