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Carcere, 24 suicidi da inizio anno

A monitorare la situazione delle carceri italiane è “Ristretti Orizzonti”. Dal 2000 a oggi si contano 2.433 decessi, 869 dei quali per suicidio. L'ultimo caso è quello di domenica scorsa: a Regina Coeli Ludovico Caiazza ha usato un lenzuolo come cappio. «Il carcere è una macchina che produce morte, stress, patologie, sintomi», è il duro commento del senatore Luigi Manconi

di Redazione

Ludovico Caiazza, un lenzuolo come cappio, a Regina Coeli, domenica sera. Giuseppe, suicida nel carcere reggino di Arghillà. Mahmeli, arrivato al capolinea dell'esistenza nella casa circondariale di Padova. E poi Calogero, Giovanni, Bruno e molti altri.

A tenere aggiornato il bollettino dei lutti nelle istituzioni carcerarie è il centro studi di Ristretti Orizzonti. E poi Calogero, Giovanni, Bruno e troppi altri. Dall'inizio dell'anno 24 persone detenute si sono tolte la vita in cella o in un ambiente confinato, come è successo con il ragazzo di 22 anni che si è lanciato fuori da una finestra della questura di Milano. Altri 37 reclusi sono morti nei penitenziari per malattia, per overdose o per motivi che ancora sono tutti da chiarire. I nomi e i cognomi dei morti dietro le sbarre riempiono decine di pagine.

Dal 2000 a ieri si contano 2.433 decessi, 869 dei quali per suicidio. Uno stillicidio continuo, inarrestabile, per il senatore Luigi Manconi, fondatore di "A buon diritto" e autore del libro -provocazione “Abolire il carcere”: «Purtroppo l'ultimo caso conferma quello che denunciamo da sempre. Il carcere è una macchina che produce morte, stress, patologie, sintomi. Si tolgono la vita i detenuti, in misura dalle 15 alle 18 volte superiore rispetto alla popolazione libera. E lo fanno anche gli agenti. Nella Polizia penitenziaria ci sono stati 100 suicidi in una decina d'anni». Per indagati e condannati i momenti peggiori sono quelli iniziali, l'impatto con l'istituzione.

Lo conferma Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti: «Il primo contatto con il carcere, e con te stesso e le tue responsabilità, è drammatico, devastante. Eppure manca l'ascolto di queste persone, manca il personale che le affianchi. Si è calcolato che gli psicologi sono talmente pochi che possono spendere sei minuti all'anno per ogni persona che hanno in carico, che sta male». Il sistema, a suo parere, «è sbilanciato verso la sicurezza, anziché verso gli individui reclusi e i loro bisogni». E allora, suggerisce Favero, «bisognerebbe lavorare sulla formazione del personale della Polizia penitenziaria e mettere in campo più operatori da dedicare all'ascolto e alla presa in carico delle persone con disagi».

A livello centrale, presso il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, da una decina d'anni è attiva l'Unità di monitoraggio degli eventi suicidari, burocratica denominazione di un gruppo di superesperti. Pietro Buffa, storico direttore del carcere torinese delle Vallette e provveditore dell'amministrazione penitenziaria per l'Emilia Romagna, ne fa parte. E spiega: «Valutiamo i casi e cerchiamo di prospettare soluzioni, raccordandoci con le regioni, da cui dipendono le asl impegnante nei singoli istituti. Sono le stesse regioni a tradurre in protocolli concreti quello che deve essere l'approccio integrato tra la sanità e l'amministrazione penitenziaria. Un esempio? Si definiscono e si applicano i criteri con cui valutare il rischio di suicidio dei singoli detenuti. Un altro? Si elencano le cose cui va prestata più attenzione, in funzione preventiva. Purtroppo non è così semplice. Ma è anche vero che parecchi tentativi di suicidio vengono sventati».


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