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La nostra parte di ottimismo. La lezione (politica) di Marguerite Yourcenar

di Marco Dotti

Ci sono troppi problemi e ben poche soluzioni nel mondo. Che fare? La domanda la pose Matthieu Galey a Marguerite Yourcenar. La risposta dell’autrice delle Memorie di Adriano, tra problemi che avanzano di pari passo con lo sconforto, torna oggi d’attualità. Riportiamo qui uno stralcio della conversazione tra Galey e la Yourcenar, convinti che possa in qualche modo alimentare una riflessione sul tema della “politica prima”, la “bella politica”, quella che viene prima di ogni istituzione e di ogni divisione. Che sia una donna, poi, a parlare, non è un fatto privo di importanza.

Qual è la sua risposta a tutti questi problemi?

La prima risposta è porseli. Se stiamo attenti a questi problemi non salveremo forse il mondo, ma almeno non aggiungeremo male a male. Salvare è una parola infelice, diciamo piuttosto che non riformeremo forse il mondo, ma almeno noi stessi che, dopo tutto, siamo una piccola parte del mondo. Ciascuno di noi ha sul mondo più potere di quanto immagini. Non ci si salva da soli. (…)

La lezione si Francesco d’Assisi pensa possa ancora venir recepita?

Francesco è il maestro di tutti, il Francesco del Cantico delle creature, il contestatore di tutti i contestatori, colui che gettava le sue vesti in faccia al padre, ricco mercante di stoffe, che amava la povertà per se stessa come alcuni di noi riimparano ad amare. E non dimentichiamo che Francesco si rotolava nudo nelle spine per vincere le debolezze della carne, cosa che la maggior parte di noi non accetterebbe dì fare. Ma lo capisco: voleva essere libero anche nei confronti della propria carne.

E, dopo di lui, chi considera al suo livello?

Le ho già citato parecchi grandi nomi. Questo perpetuo influsso di esseri degni di essere amati e ammirati, questa spinta  quasi istintiva  di certe creature umane verso la trascendenza rassicura e consola; costituisce, se vuole, la nostra parte di ottimismo. Ma pochi raggi di luce non rischiarano la notte, e qualche ondata non solleva l’oceano. Si potrebbe dire che siamo ottimisti ogni volta che guardiamo un fiore, o un bel pezzo di pane, e siamo pessimisti ogni volta che pensiamo a coloro che snaturano il pane e uccidono i fiori.

In politica si tende a considerare ottimista l’uomo di sinistra perché crede nel progresso, in opposizione all’uomo di destra che non giudica i propri simili suscettibili di miglioramento.

L’uomo di sinistra, conformemente al suo credo, manifesta la sua fede non in un certo progresso, ma in un progresso certo, il che è più grave, e lo fa assomigliare ai primi cristiani che credevano a un prossimo ritorno del Signore in terra, alla parusìa. In questa nostra epoca, in cui il progresso tecnologico si è costantemente accompagnato a catastrofiche calamità, sarebbe un atteggiamento fideistico alquanto ingenuo. Ma in che cosa è diverso l’uomo di sinistra, ottimista a ogni costo, dal capitalista di destra che anche lui sogna il progresso, o quanto meno lo sognava fino a ieri? Ogni volta che vado in un supermarket, cosa che del resto mi succede di rado, mi sembra d’essere in Russia. È lo stesso cibo imposto dall’alto, assolutamente uguale in ambedue i sistemi, con la sola differenza che qui i prodotti sono imposti dalle multinazionali e la da degli organismi statali In un certo senso, gli Stati Uniti sono altrettanto totalitari dell’URSS, e in ambedue i paesi, come del resto dappertutto, il progresso (vale a dire l’incremento del benessere umano immediato), o semplicemente il mantenimento dello status quo presente, dipende da strutture sempre più complesse e sempre più fragili. Come il beato umanesimo del borghese del 1900, il progresso a getto continuo è un sogno che appartiene al passato. Bisogna imparare di nuovo ad amare la condizione umana qual è, accettare i suoi limiti e i suoi rischi, avere un rapporto dirette con le cose, rinunciare ai nostri dogmi di partito, di patria, di classe, di religione, tutti intransigenti e dunque tutti forieri di morte. Quando faccio il pane, penso alla gente che ha fatto spuntare il grano, penso ai profittatori che ne gonfiano artificialmente il prezzo, aì tecnocrati che ne hanno guastata la qualità – non che le tecniche recenti siano necessariamente un male, ma il fatto è che si sono messe al servizio dell’avidità che è certamente un male. Penso a chi non ha pane, e a chi ne ha troppo, penso alla terra e al sole che fanno crescere le piante. Mi sento idealista e materialista al tempo stesso. (…)

Per avvicinarsi alle sue posizioni, bisognerebbe cambiare la mentalità della maggior parte degli uomini.

Anche se e impossibile, bisogna provare a farlo. Nella Bhagavad-Gita, c’è un passo in cui Krishna dice a Arjuna: “Lotta, come se la lotta servisse a qualcosa; lavora, come se il lavoro servisse a qualcosa”. E lei ricorderà, più vicino a noi, il motto di Guglielmo d’Orange: “Il n’est pas nécessaire d’espérer pour entreprendre”.

 

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