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Media, Arte, Cultura

A Bologna arriva “Fotografando Beirut”

Per la 7 edizione della rassegna “Terra di tutti” è stato proiettato a Bologna il profondo e toccante “Beirut Photographer”, un documentario-verità di George Azar

di Joshua Zanzibar

Nell'ambito della 7 edizione della rassegna “Terra di tutti” è stato proiettato a Bologna il profondo  e toccante  “Beirut Photographer”, un documentario-verità di George Azar, prestigioso fotografo statunitense di origine libanese che da almeno trent'anni documenta la realtà del Medio Oriente in zone di tensione e conflitto bellico. Nel 1981, il ventiduenne Azar, attraversando il confine siriano entra nel Libano con una piccola macchina fotografica, con il preciso intento di offrire una visuale più realistica del quadro stereotipato che i media statunitensi offrono del Medio oriente e del Libano in particolare. Qualche tempo dopo Israele attacca il Libano, rifugio del vertice militare dell'OLP e George e la sua reflex economica si trovano  essere testimoni di una delle più violente estati del conflitto medio-orientale culminate con il massacro di innocenti palestinesi -donne e bambini compresi- nei campi di Sabra e Chatila, consentito dai vertici israeliani ai miliziani libanesi.

Dai tempi del Rinascimento fiorentino il Libano ha svolto e scolge il ruolo di avamposto della diplomazia europea ed ha sopportato di veder combattere sul proprio territorio le guerre altrui. Sopra Dayr al-Qamar troneggia ancora il castello di Beitaddine, residenza estiva del Presidente della Repubblica Libanese e stupendo esempio di contaminazione artistica tosco-libanese ( e stupenda anche la descrizione delle sensazioni di viaggio in “Scintille”, di Gad Lerner).

Un mosaico etnico cerniera di congiunzione tra oriente ed occidente e luogo prediletto di contaminazioni culturali della memoria e della nostalgia di milioni di profughi ed emigrati libanesi ( la “libanesità”, l'essere libanesi all'estero, anche questo ci narra sottilmente il documentario di Azar) : una nostalgia a tratti anche logorante ed ossessiva per un luogo archetipico (“Beyrut la Bella”) sullo sfondo di una città tormentata dai conflitti nelle testimonianze dei protagonisti degli scatti di Azar cercati e trovati trent'anni dopo.

Ed il senso pacificato di “essere libanesi” in un paradiso divenuto polveriera, centro di trame internazionali e rifugio di derelitti. Laddove il Mediterraneo meticcio pare balcanizzarsi risuonano le parole del libanese-statunitense Nassim Nicholas Taleb nel suo recente e sorprendente best-seller “Il cigno nero»: «…è starordinario come si possa costruire una nazionalità in modo rapido ed efficace con una bandiera, qualche discorso ed un inno nazionale. Ancora oggi evito il termine “libanese” e preferisco quelo meno riduttivo di “levantino”». La nostalgia di Malouf per un «mondo color seppia dove un turco e un armeno potevano esser ancora fratelli» nel capolavoro “Gli scali del levante”, la “libanesità” come condizione esistenziale di ricordo, stato d' animo e “nostos” -ritorno-, attraversa il filamto di Azar come l'orrore dei campi profughi e lo rende un piccolo capolavoro.


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