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Sanità & Ricerca

Aids, speranze nel ghetto

Sconfitto il virus, vogliono ritornare al più presto in azienda e in ufficio. Ma incassano solo dei no. Lo denuncia Mauro Moroni, infettivologo di fama mondiale.

di Federico Cella

Chicago, 5 febbraio: si tirano le prime conclusioni dopo la Quinta Conferenza mondiale sui retrovirus e le malattie opportunistiche legate all?Aids. «Grazie alle nuove terapie molti sieropositivi hanno riconquistato una buona qualità della vita; gli psicologi hanno parlato di Sindrome di Lazzaro per chi, ottenuta una tregua dalla malattia, vuole nuovamente riprogettare la propria vita. Molti vogliono reinserirsi nel mondo del lavoro e questo fenomeno va seguito e aiutato con leggi adeguate». È il professor Mauro Moroni, primario all?ospedale Sacco di Milano, a lanciare l?appello ai sindacati italiani, subito seguito da una lettera ufficiale targata Anlaids. L?infettivologo, presidente della sezione lombarda dell?associazione, è stato recentemente premiato con il titolo di ?Uomo dell?anno per la lotta all?Aids?; un riconoscimento per cui si schermisce («Sono stati troppo buoni, in realtà ho degli assistenti molto validi»), ma che vuole sottolineare l?impegno del luminare che va al di là della ?semplice? ricerca sul virus. Tornato al lavoro nel reparto malattie infettive dell?ospedale milanese, l?abbiamo contattato perché ci spiegasse meglio l?importante passo avanti fatto, grazie soprattutto alle terapie basate sugli inibitori di proteasi (destinate a rallentare la riproduzione del virus da Hiv), da chi è affetto dal morbo. «Prima eravamo abituati a dover affrontare problemi di uscita morbida, pensione, sussidio, assitenza a domicilio -, spiega il professor Moroni -. Adesso la tendenza all?abbandono del lavoro non solo si è interrotta, ma addirittura invertita: ci troviamo di fronte a persone che riacquistano appieno le capacità lavorative, ma che, per questo motivo, perdono anche il diritto alla pensione di invalidità. Dunque diventa fondamentale per loro reinserirsi nel ciclo produttivo al più presto». Un reinserimento quasi mai facile, però, a causa di mai sopiti sospetti di inaffidabilità e di paure, non fondate, di contagio. «Ci troviamo di fronte a un problema esaltante -, continua il professore -, rispetto a quelli opposti del passato. Purtroppo, a causa della diffusa disoccupazione e della conseguente grande domanda di lavoro, i ?capi? hanno una vasta scelta e difficilmente questa potrà ricadere su persone che hanno fatto mesi, magari anche anni, di malattia. E questo quando la possibilità di riprendere a lavorare sarebbe un passo fondamentale verso il completo recupero della salute; a torto o a ragione, il lavoro viene infatti sentito come il momento del definitivo reinserimento nella società». E, così, una tiepida accusa si muove verso i sindacati: «Hanno sempre preferito stare dietro alle paure dei molti, piuttosto che ai diritti dei pochi, cioè dei lavoratori sieropositivi». La risposta ufficiale, in forma di lettera all?Anlaids, non si è fatta attendere. Ce ne spiega i contenuti Alessandro Geria, del Dipartimento politiche sociali della Cisl: «Abbiamo prima di tutto sottolineato come i sindacati si siano occupati della condizione drammatica dei lavoratori sieropositivi fin dal primo emergere del fenomeno; la legge 135 del 1990, che inibisce ai datori di lavoro sia la possibilità di effettuare test medici prima dell?assunzione, sia il licenziamento per cause di malattia, è infatti una conseguenza di questo nostro impegno. E, al fianco di questo successo, da parte nostra si sono susseguiti progetti, in collaborazione con il ministero della Sanità, per portare una corretta formazione e informazione direttamente nelle aziende». Ma al momento attuale ci si trova di fronte a una realtà diversa dal passato, di cui bisogna prendere atto. «Un impegno -, continua Geria -, che noi vogliamo assumere, magari costituendo un tavolo di lavoro comune con l?Anlaids. Tuttavia, vorrei sottolineare come sia possibile un effetto-boomerang se noi arriviamo considerare i sieropositivi come dei lavoratori speciali, definendoli in una categoria a parte. In questo senso, ci opponiamo decisamente a provvedimenti tesi, per esempio, a costituire delle liste di collocamento obbligatorio».


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