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Realizzare l'invecchiamento attivo

Anziani, vivere bene si può

Attività fisica, nutrizione, stimolazione cognitiva, attenzione cardio-vascolare e vaccinazioni. Bisogna adottare un nuovo approccio alla salute dell'anziano, applicare interventi a tutti i livelli, ospedaliero, residenziale e domiciliare, non troppo costosi e trasferibili, ma sopratutto efficaci nel prevenire o rallentare il declino funzionale e cognitivo

di Nicla Panciera

Almeno il 40% di tutti i casi di demenza sono legati a stili di vita modificabili e a fattori ambientali. Nell’attuale assenza di trattamenti per questa malattia neurodegenerativa che colpisce 1.200.000 italiani, in un paese come l’Italia che, secondo i dati Istat, è uno dei più anziani ed è destinato a diventare entro il 2040 il quarto quarto Paese al mondo per numero di persone che ne saranno affette, dovrebbe essere una priorità di tutti adottare stili di vita adeguati per prevenire o posticipare la comparsa delle demenze o rallentarne la progressione. Agire in questo senso non è mai né troppo presto né troppo tardi, ammoniscono neurologi e geriatri nel tentativo di favorire la diffusione di buone pratiche quotidiane. «Non è mai troppo presto perché sappiamo che la patogenesi inizia almeno due decenni prima della comparsa dei primi sintomi sintomi e non è mai troppo tardi perché anche in caso di diagnosi di demenza è possibile rallentarne la progressione» spiega Giuseppe Bellelli dell’Università di Milano Bicocca, responsabile della geriatria del San Gerardo di Monza.

I fattori di rischio per le demenze, secondo la Lancet Commission on Dementia Prevention, di cui vi avevamo già parlato qui e qui, sono dodici: l’ipertensione, l’ipoacusia non trattata, il fumo di sigaretta, la sedentarietà, l’obesità, il diabete, l’attività fisica, la depressione e la scarsa istruzione, i traumi cerebrali, l’inquinamento, l’isolamento e le scarse relazioni sociali. «Alcuni di questi sono di responsabilità di ciascuno di noi, mentre altri come l’inquinamento e la socialità chiaramente non dipendono del tutto dal singolo individuo ed è quindi più complicato agire su di essi» spiega il geriatra.

Sull’efficacia di interventi volti a ritardare la comparsa di deficit cognitivi gli studi sono numerosi, a partire dal più celebre, il Finger. Emerge, in primo luogo, l’importanza della storia di ciascun individuo e, quindi, delle scelte compiute in età giovanile e adulta: «Conta molto la misura in cui un individuo accumula i fattori di rischio nel corso della sua vita» spiega il geriatra. È ormai certa l’efficacia di interventi multidimensionali, volti a promuovere l’invecchiamento attivo e prevenire il declino funzionale e cognitivo. «Nutrizione, attività fisica, stimolazione cognitiva, socialità, aderenza al piano vaccinale nazionale e l’abbattimento dei fattori di rischio cardiovascolare sono alcuni dei fronti su cui agire. Al momento, mancano evidenze sugli effetti del singolo intervento, come la sola dieta o la sola attività fisica, e quindi vanno predisposti interventi multidominio, per i quali disponiamo dei dati» spiega Bellelli, convinto della necessità «di cambiare il modo in cui si eroga l’assistenza alle persone anziane». Proprio per individuare «interventi fattibili a tutti i livelli, domiciliare, residenziale e ospedaliero, non troppo costosi, semplici, applicabili e trasferibili» sono in corso dei progetti nell’ambito dello studio clinico In-tempo (Studio ItaliaNo con interventi multidominio personalizzati per prevenire il declino funzionale e cognitivo negli anziani che vivono in comunità), che rientra nel più ampio piano nazionale Age-It, una delle linee di investimento previste dal Ministero dell’Università e della Ricerca all’interno del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza finanziato con 114 milioni di euro.

Bisogna cambiare il modo in cui si eroga l’assistenza agli anziani. Serve implementare interventi semplici, fattibili ed efficaci capaci di contrastare il declino funzionale e cognitivo

«L’idea è di disegnare interventi di salute rivolti a comprimere la disabilità negli ultimi anni e di migliorare la vita invece di allungarla» spiega Bellelli. Nel contesto a domicilio, verranno valutati molti dei fattori detti, come la nutrizione, la stimolazione cognitiva e l’attività fisica, anche grazie alle nuove tecnologie come i dispositivi indossabili e tablet» spiega Bellelli, responsabile del progetto Optimage-it dedicato invece agli anziani ospedalizzati. «Lo studio coinvolgerà otto geriatrie italiane e ha l’obiettivo di prevenire l’insorgenza di problemi di disabilità associati alla degenza ospedaliera. Un terzo degli anziani è a rischio di essere dimesso in condizioni funzionali peggiori di quando sono entrati. I fisioterapisti non sono presenti in tutti i reparti medici e chirurgici e gli infermieri hanno altro da fare e non hanno tempo per far deambulare i pazienti anziani ospedalizzati».

Non si pensi sia solo un problema di fondi, che «si trovano quando si tratta di acquistare l’ultima strumentazione diagnostica. Serve con urgenza l’adozione di un’ottica diversa, una diversa organizzazione, perché un terzo dei degenti è ultraottantenne e bisogna guardare alle loro esigenze». E anche a quelle di chi risiede nelle strutture residenziali: «Sono 100 mila persone nella sola Lombardia, una città nella città, persone che dipendono dalle iniziative delle singole Rsa» dice Bellelli, coordinatore con Stefania Maggi del Cnr neuroscienze di Padova del progetto I-count, checoinvolgerà circa 120 persone in tre residenze: l’Azienda speciale cremona solidale (Cremona), ltavita – Istituzioni Riunite di Assistenza (Padova) e Rsa villaggio amico di Varese. I residenti verranno valutati a 3, 6 e 9 mesi, per misurare gli effetti di un intervento multidominio che include attività fisica e stimolazione cognitiva, intervento nutrizionale, inclusa l’analisi del microbiota intestinale. Un gruppo seguirà un programma dedicato e sarà confrontato con il gruppo di controllo, costituito dagli anziani che proseguiranno invece con le attività standard proposte dalla residenza.

Nel frattempo, mentre si cerca di prevenire, è frenetica la ricerca di biomarcatori in grado di predire la progressione da disturbo cognitivo lieve ad Alzheimer, anche in un’ottica di futura eventuale disponibilità di farmaci contro l’Alzheimer, come gli anticorpi monoclonali di cui si parla da tempo, ma la cui approvazione è minacciata dai loro pesanti effetti collaterali, come gli edemi e le emorragie cerebrali. L’origine multifattoriale dei disturbi cognitivi legati all’invecchiamento li tende particolarmente complicati da studiare e predire chi convertirà in Alzheimer al momento non è possibile. Per questo, sono in corso avanzati studi di neuroimmagine, come lo studio CAPE della Bicocca-San Gerardo, che indaga l’alterazione nella perfusione cerebrale quando ancora i sintomi sono silenti, alla ricerca di biomarcatori per la diagnosi precoce e per studiare la progressione biologica.

Foto del Centre for Ageing Better su Unsplash


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