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Caro Draghi, il welfare non è finito

Stamane ha preso avvio la due giorni delle organizzazioni sociali

di Maurizio Regosa

Caro Draghi, non è il modello sociale del welfare a essere tramontato… Comincia così la lettera che 50 organizzazioni del terzo settore e del privato sociale italiane hanno voluto cominciare a scrivere stamattina. È rivolta non soltanto al presidente della Bce, ma anche ai governi nazionali, in particolare a quello italiano.

Le contraddizioni dell’Unione Europea

La prima parte di questa lunga epistola (per scrivere la quale è stata organizzata questa due giorni intitolata “Cresce il welfare, cresce l’Italia”) l’hanno scritta Chiara Saraceno, Paolo Leon e Stefano Rodotà. Tre super esperti che da vari punti di vista hanno analizzato il malato europeo, cioè lo Stato sociale. Che come modello europeo (quello cui si riferiva Mario Draghi che l’ha dato per morto proprio qualche giorno fa) non esiste. «Ci sono alcuni elementi che fanno intravedere un modello europeo rispetto ad esempio a quello americano, ma il Welfare è sempre stato un elemento di differenziazione degli stati nazionali. Tant’è che non è entrato nei Trattati istitutivi, ma è eventualmente oggetto di raccomandazioni». Cioè qualcosa su cui vale la pena di spendere qualche parola di esortazione, non ricordandosi poi di chiedere com’è andata, quale iniziative sono state realizzate e quali no. «Nonostante l’Europa 20-20, cioè quella che ha fissato obiettivi misurabili, i comportamento dell’Unione è pieno di contraddizioni, basti vedere quel che è successo in Grecia», ha esemplificato Saraceno. Già quel che è successo in Grecia. Con la Troika, cioè l’Europa, che chiede sacrifici pazzeschi che vanno nella direzione contraria degli obiettivi fissati per il 2020. Un’incoerenza della quale stiamo facendo più di una verifica nel Belpaese. «La famosa lettera dell’Unione, che giunse al governo italiano alcuni mesi fa, conteneva anche la richiesta di nuove iniziative di conciliazione per consentire alle donne di entrare nel mondo del lavoro», prosegue la sociologa, «ma nessuno chiede conto di quelle iniziative». Che, si sa, non sono mai state varate. Così come, fino ad ora, non si è saputo trasformare la spesa sociale nell’investimento che è.

Incertezze pelose?

Non è però che le contraddizioni e le incertezze siano prive di conseguenze. Potrebbero anzi essere pelose. In qualche modo cioè volute e funzionali. È la tesi che Paolo Leon esprime in maniera più elegante, ma riferendosi alle medesime categorie quando definisce ad esempio Draghi non un tecnico, ma «un politico al servizio della conservazione». Una formula che forse non al solo Draghi potremmo applicare e che ha il merito di far comprendere come l’oscillazione dei diritti e delle pratiche verso la graziosa concessione non sia proprio così indolore. «Lo stato sociale moderno è quello che si preoccupa dei diritti, cioè prevede istruzione sanità e previdenza quali premesse per la libertà del singolo, al di là delle sue personali garanzie». Con buonapace del ministro Fornero (che di recente ha riconosciuto solo ai «santi» il merito del vero welfare), «qualche merito l’hanno avuto le politiche e le leggi. Cioè l’idea di uno stato sociale inclusivo ma non egualitario». Rispetto alla quale si è, negli ultimi tre decenni, sostituita un’idea diversa, spesso connessa a un’inclusione pietistica. «È all’inclusione deontologica, quella del medico di fronte a un paziente, quella del terzo settore, del sindacato che fa il suo mestiere, che bisogna guardare. Al terzo settore in modo particolare, sempre che sappia non assoggettarsi alle politiche in cambio del finanziamento».

I lavori proseguono nel pomeriggio con le sessioni parallele e domani con la presentazione dei risultati e con due tavole rotonde.

 

 


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