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Daniele Segre, il nostro ricordo di un maestro e di un amico

Daniele è sempre stato un compagno di cammino, un riferimento. A unirci quello che recita il nostro Codice etico “VITA è nata da una vera passione giornalistica verso la realtà, nella sua pluralità e diversità”. La passione verso la realtà ci univa nei nostri diversi cammini. Ricordarlo oggi significa per noi approfondire le ragioni della nostra, e sua, scelta.

di Riccardo Bonacina

Un male fulminante, diagnosticato lo scorso dicembre, si è portato via ieri pomeriggio il regista Daniele Segre, un amico e uno dei padri storici del nuovo cinema torinese. I suoi documentari e film, spesso incentrati su vite difficili e disagio esistenziale, hanno raccontato senza sconti la realtà del nostro tempo. Giovedì prossimo avrebbe compiuto 72 anni. Nato ad Alessandria, nel 1981 aveva fondato a Torino la sua casa di produzione I cammelli, a cui nel 1989 affiancò una Scuola video di documentazione sociale.

Per noi di VITA Daniele è sempre stato un compagno di cammino, un riferimento, a unirci quello che recita il nostro Codice etico al punto 2 “VITA è nata da una vera passione giornalistica verso la realtà, nella sua pluralità, diversità e verso l’avventura umana in ogni sua espressione”. LA passione verso la realtà ci univa nei nostri diversi cammini.

Ricordarlo oggi significa per noi approfondire le ragioni della nostra, e sua, scelta.

Cosa significhi “cinema del reale” Daniele Segre lo ha raccontato bene Ettore Colombo in un’intervista del 2003, intervista da leggere per capire chi era. “Per me”, raccontava Segre, “è fondamentale stabilire un rapporto vero, profondo e immediato con i protagonisti delle storie che racconto: tutti i personaggi, quasi sempre “reali”, “veri”, non attori professionisti. Io scelgo di raccontare una storia, che mi colpisce a volte anche per ragioni del tutto casuali, ma poi scelgo di stare dalla parte delle persone e delle vite che racconto e che rappresento con la cinepresa.”

Raccontare la realtà anche come atto di resistenza e opposizione alle mode dominanti, come raccontava a Sara De Carli: “Prendere una telecamera e raccontare, tutto questo è già il risultato di una decisione personale di partecipazione e impegno. Il segno di una sensibilità nuova rispetto al modello culturale dominante, col suo divismo e i suoi film alla Muccino.” (leggi qui l’intervista)

Un esempio? Il film Vecchie un titolo diretto senza ipocrisie e infingimenti dedicato a quella che oggi chiamiamo “cultura dello scarto”, film che il regista intervistato da Benedetta Verrini ci raccontò così: “Oggi non ci sono più i sottoproletari ma i sottoculturati in preda ad uno spappolamento identitario. E i vecchi, con le loro paure e la voglia di vivere, con i loro ricordi e il loro bisogno di aiuto, sono lì ad avvertirci di non cadere nel baratro.” (leggi l’intervista)

Segre, per un paio d’anni fu nostro inviato al Festival del Cinema di Venezia, festival a cui aveva partecipato più volte come regista raccogliendo anche successi, come racconta qui, ma partecipare da inviato, scrive mi permetterà di “osservare di più gli altri e le loro opere, li ascolterò con un atteggiamento diverso e già questa prospettiva mi eccita e credo mi aiuterà ad analizzare meglio lo stato delle cose del cinema italiano.”

Ma ci fu un momento, nell’occasione dei primi 10 anni di Vita, che il rapporto con Daniele Segre si fece quotidiano. Con una scelta sorprendente Daniele che stava preparando un’inchiesta in 6 puntate per Raitre dal titolo “Volti: Viaggio nel futuro dell’Itala”, decise di girare una puntata intera nella nostra redazione. Sebastiano Messina raccontò così la sorpresa per quel linguaggio inedito: “Non c’è nessuna trama. Dopo la sigla: un coro di giovani sconosciuti che canta “Fratelli d’Italia” con generose stonature: sul video compaiono uno dopo l’altro, senza nessun sottotitolo, senza nessuna presentazione, senza nessuna voce narrante, i volti di una ventina di giovani che sembrano non avere niente in comune, a parte il fondale colorato dietro di loro. Ragazze e ragazzi che raccontano la loro storia prendendola molto ma molto alla lontana: ieri sera, per esempio, per i primi dieci minuti i protagonisti ci hanno parlato della metropolitana milanese, dei corsi Erasmus, dei colori della città, delle paure dei genitori e di tante altre cose, prima che potessimo capire che quelle facce appartenevano ai redattori di Vita il settimanale del non profit. I quali ci raccontano la loro vita, le loro passioni, i loro sogni, attraverso questo metodo narrativo basato sulla sobrietà più assoluta: solo loro, e nient’altro. Niente domande, dunque (o almeno noi non possiamo sentirle, anche se possiamo immaginarle). Solo le loro risposte, date però con una spontaneità davvero rara, nonostante l’apparente somiglianza della scena a quella del confessionale del Grande Fratello”.

Fu un’occasione, il lavoro fianco a fianco per capire come il suo “cinema della realtà” fosse, un “cinema delle persone”, un cinema fatto di volti (quanta cura nello scegliere le inquadrature) e di parole che lui riusciva a far uscire da chiunque avesse davanti, anche ai giovani redattori di Vita (nella foto un giovanissimo Stefano Arduini). Ecco quel frangente così prezioso per il nostro lavoro come fu raccontato da Giuseppe Frangi


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