Persone
Danilo Dolci, il corpo estraneo
Quando i più giovani lo scoprono, chiedono perché gliene sia stata nascosta l'esistenza. Conosciuto come sociologo, educatore, poeta, attivista della non violenza, Danilo Dolci ci ha insegnato che "ciascuno cresce solo se è sognato", dimostrando con la sua stessa vita che il vero cambiamento avviene solo con il coinvolgimento dei diretti interessati. In occasione del centenario della sua nascita, un dialogo con il figlio Amico, che ha raccolto la sua eredità e la tramanda anche attraverso la musica
Chiaro e diretto come un raggio di sole, trasparente tanto da suscitare mai alcun dubbio, coraggioso sino allo stremo delle sue stesse forze, Danilo Dolci lo si conosce come sociologo, scrittore, poeta, educatore; tante vite che si incontrano e intrecciano, sostenute da un privato, forte di una famiglia alla quale chiedeva molto rigore, ma non prima di dimostrare lui stesso cosa volesse dire dare l’esempio. Solo l’averlo definito il Gandhi della Sicilia, dà il segno di che forza emanasse.
«Faccio un po’ di difficoltà a scegliere tra i tanti suoi ruoli», racconta il figlio Amico, che ha raccolto il testimone del padre e oggi è presidente del Centro Sviluppo Creativo Danilo Dolci – «perché privatamente era un genitore affettuosissimo, complementare a nostra mamma Vincenzina. Lui triestino, una figura maestosa anche dal punto di vista fisico, lei siciliana minuta. Con lei parlavamo in dialetto mentre con papà in italiano, ma scherzosamente a volte facevamo al contrario. Eravamo una famiglia che sfruttava ogni occasione per parlare: della realtà che ci interessava e di quella che ci interessava più direttemente. Lo facevamo a casa, come anche durante i piccoli e lunghi viaggi che affrontavamo insieme in auto».
Numerose le battaglie portate avanti da Danilo, senza mai risparmiarsi da tutti i punti di vista. Una su tutte, quella dell’ottobre 1952, quando a Trappeto digiunò sul letto di Benedetto Barretta, un bimbo morto per denutrizione. Pochi anni dopo guiderà un’altra delle proteste non violente che, attraverso un altro sciopero della fame, solleverà il problema della pesca di frodo che danneggiava i pescatori siciliani. La costruzione della Diga sullo Jato, poi, diventerà uno dei simboli della battaglia per il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione della Sicilia occidentale.
«L’aspetto più sociale di papà», prosegue Amico Dolci, «l’ho scoperto quando avevo nove anni circa e ho cominciato a leggere la mia copia di “Processo all’articolo 4”. Più andavo avanti e sfogliavo quelle pagine, più mi commuovevo perché capivo che gli avevano fatto qualcosa di molto brutto. Papà era sempre rivolto al futuro, raccontava dello “sciopero al rovescio”, del suo arresto per avere rivendicato il diritto di lavorare gratis, invece di astenersi dal lavoro per protesta. Le domande dei giudici, invece, erano solo tese a farlo cadere in tranello per accusarlo. Lo trovavo assolutamente ingiusto».
La battaglia per l’acqua, anche e soprattutto occasione di riscatto sociale e culturale…
Era tutto connesso a far sì che la gente, i contadini, spinti dalla fame, diventassero sempre più autonomi nelle loro scelte, organizzandosi in cooperative. perché questo tesoro, l’ oro dell’acqua, non fosse sprecata nella solite colture. Bisognava veramente cambiare marcia ed ecco i tanti seminari sui cereali, gli ortaggi, per le fragole che allora non esistevano.
Una vita sicuramente impegnativa, ma anche molto speciale che vi faceva sentire bambini fortunati?
Noi piccoli eravamo sempre coinvolti in tutto, infatti non ci sentivamo appartenere a un’élite. Nel ’68 io avevo 11 anni e ricordo che, mentre andavamo nella zona terremotata, cosa che facevamo spessissimo, un giorno sì un giorno no andavo io, altre volte mia sorella Chiara, adoravo quelle conversazioni con papà sul futuro. Un giorno, durante una di queste passeggiate, gli confessai che volevo fare il maestro di flauto.
Mi piaceva già suonare l’armonica a bocca e papà allora mi disse: “Ah, se dici seriamente, allora dobbiamo cercare qualche musicista” . E così fu. Ebbi insegnanti come Angelo Faja per il flauto, Eliodoro Sollima per la composizione, poi Salvatore Cicero e Giovanni Perriera per tante altre materie che mi sarebbero servite in futuro. Pensate che da noi venivano a suonare le prime parti del Teatro Politeama di Palermo. Arrivavano la domenica, nel loro giorno libero, e per noi erano giorni di festa. A un certo punto, però, mi chiesi se fare musica fosse un lusso, un mio solo privilegio. Soprattutto quando cominciarono a pagarmi per suonare.
Cosa voleva dire senso della reciprocità per Danilo Dolci?
Per lui era ridare ciò che si riceveva. Proprio in base a questo ho fondato la scuola di musica rivolta ai più piccoli perché il Conservatorio non era così aperto. Questo avviene negli anni Ottanta, avevo circa 27 anni, ero andato a studiare in Svizzera e in Germania, ma avevo sempre pensato che non sarei mai andato via dalla Sicilia. Ho sempre creduto che, se ci si impegna, se si fa bene, i risultati arrivano, anche se dopo tanto tempo. Oggi lavora con noi un centinaio di ragazzi che hanno mio padre come fonte ispiratrice.
Tante cose che papà avrebbe potuto o non potuto fare, noi oggi le realizziamo, moltiplicando il suo pensiero alla base del quale c’era l’incontro tra le persone. Ci sono ragazzi delle scuole medie o anche dei licei che stanno quattro o cinque anni insieme ai loro professori e non riescono a trarre grandi insegnamenti, mentre alla fine di soli tre laboratori di due ore ciascuno ci dicono: «Ma perché ci avete nascosto Danilo Dolci?».
Quanto profondamente rimane oggi di Danilo Dolci?
La modalità del dialogo maieutico e non solo noi lo riattiviamo ascoltando i ragazzi, che poi non vedono l’ora di incontrarci di nuovo. Anche i pregiudizi nei confronti dei compagni cadono e si rivalutano a vicenda. Questo succede perché hanno la possibilità di esprimersi e di essere ascoltati. Ai ragazzi tutto questo manca perché si ingiunge loro di ascoltare i grandi, i professori, senza dare loro la possibilità di esprimersi. È del resto quello che manca alla scuola.
La musica, per esempio, aiuta perché è fatta di ascolto reciproco. Il laboratorio maieutico è qualcosa del genere; allo stesso modo può farti emozionare, farti venire la pelle d’oca. Sono vent’anni che facciamo questo lavoro. Sono stato a Bari, a un festival intitolato “Il tempo dei piccoli”, dove i laboratori di teatro più impegnativi erano per i bambini più grandi, comunque per un pubblico dai 7 ai 107 anni. C’era un teatro piccolissimo per circa 60 persone, credo il più piccolo del mondo, dove hanno proposto “Il barone rampante” in versione scenica, con Cosimo e Viola che saltavano da un albero all’altro agilissimi; per i bambini una gioia.
È qui che la famosa frase “Ciascuno cresce solo se è sognato” viene adottata e ampliata…
Un verso di papà talmente valorizzato e impiegato che è rimasto scolpito nelle mente di tutti. La sindaca di Ruvo di Puglia, un paese vicino a Bari, ha adottato questo teatro, un luogo che regala tempo ai più piccoli e, contagiando quattro o cinque comuni vicini, ha fatto in modo che i diversi sindaci fossero pienamente coinvolti. Per loro il festival, oltre ad avere adottato Don Milani, Alberto Manzi, Emma Castelnuovo e Danilo Dolci, è stata l’occasione per fare propria le parole di Danilo e trasformarle in “La città cresce solo se è sognata”. Hanno parafrasato la frase di Danilo, affidandola un po’ a tutta la città, e io lo trovo bellissimo.
Secondo lei cosa, la scuola di oggi, ha capito e quanto ha fatto proprio l’insegnamento di Danilo Dolci?
La scuola, io voglio anche crederla in buona fede, pensa che debba trasmettere i valori, ma spesso la trasmissione unidirezionale e continuativa, come possono essere 8-10 anni continuativi, lo diceva papà, diventa violenza. Infatti, i giovani la rifiutano questa scuola. Quando si parla di dispersione scolastica, io i ragazzi e i bambini li capisco, scappano dalla scuola che vuole inculcare loro il più possibile. Ma chi li ascolta? Lo dicono tantissimi psicologi e pedagogisti, lo diceva anche la Montessori che ascoltare i ragazzi a volte è una forma di terapia, ma deve innescare reciprocità. Tu non puoi chiedere a qualcuno di essere ascoltato se poi lo ignori.
Danilo Dolci padre, papà e Danilo Dolci educatore, personaggio pubblico. Una figura ingombrante? Chi era il vero Danilo?
Ingombrante solo per la sua figura fisica, ma io lo abbracciavo come fosse una sfida che gli lanciavo da piccolino. Lui, poi, privatamente aveva sempre parole dolcissime. Ci chiedeva sempre: «Amoruzzo, come ti senti? Come vanno le cose?». Le sue domande, però, non erano tanto sulla scuola perché sapeva come funzionava e poi noi andavamo bene. Lui tifava comunque per i giovani. Quando avevamo un professore, un maestro che ci faceva ridere era contento, ma nell’insieme la scuola per lui generava noia. Infatti ci chiedeva di superare gli esami, ma con quella disciplina che si alimenta attraverso l’esempio.
Lui, per esempio, si alzava la mattina molto presto, intorno alle 4, e alle 4.30 era già in ufficio. Ci raccontava del suo lavoro, lo vedevamo che era disciplinatissimo e portava avanti sino in fondo tutte le cose che iniziava. Per noi, quindi, finire la scuola ed essere promossi era il minimo che potessimo fare. Poi parlava di cose più profonde, più nostre, come la musica o la lettura. Io adesso leggo pochissimo perché non ho tempo, ma tutti abbiamo avuto sempre libri in mano in famiglia. Abbiamo letto i russi, i tedeschi, Shakespeare, Goethe. Oggi non lo fa più nessuno, all’università si leggono ritagli e ritagliucci, frammenti di letteratura, assurdo. Anche nella musica, cinque battute di Beethoven e già pensano di avere imparato la sinfonia.
Nello studiare c’è il senso dell’insegnamento di Danilo…
Si, perché studiare deriva da desiderare e, nel desiderare, c’entra l’esperienza che offre prospettive incredibili. Studiare non può essere una necessità, ma un piacere. Ecco perché i musicisti venivano da noi, perché si suonava con piacere, non c’era l’obbligo di mettersi eleganti perché bisognava fare il concerto per il quale ti pagano: da noi si suonava per i pescatori, per la gente che faceva bene il pane e ti pagava con le pagnotte da 2 kg o con i bottiglioni di vino fatto da loro. In questo genere di rapporto sta la reciprocità.
Come si svolgeva la vostra vita quotidiana?
Io e mio fratello Cielo costruivamo i Go Kart di legno con le cassette di frutta. Le ruote erano di metallo, cosiddette a pallina. Al Borgo venivano tutti i nostri compagni di scuola, anche 25 a volta. Ci divertivamo a interrogarci a vicenda sul mare, su cosa sono le stelle, su tutte le cose più fantastiche che nessuno più ci invita a osservare. Io oggi ho una figlia sola, non vorrei dire che ho concentrato tutto in lei, ma desideravo che da piccolina vivesse l’esperienza della sabbia sotto i piedi.
Ci sono tanti bambini che, per esempio, non hanno mai visto una mucca da vicino o non si sono mai arrampicati sugli alberi, cosa che per noi costituiva un’esperienza per nulla eccezionale perché quotidiana. Chi veniva da noi respirava tutto questo. Costante era anche l’impegno comune. Il centro di Partinico divenne anche la sede della prima Radio Libera, erano gli anni Settanta, e più in là di una radio sociale dove le persone stesse curavano le loro trasmissioni parlando di sindacato, musica, poesia. Erano anche gli anni di “Radio Aut” con Peppino Impastato.
Se oggi di Danilo fosse con noi cosa direbbe? Come reagirebbe a tutto quello che è successo e che continua ad accadere?
Così di colpo starebbe molto male, però poi sarebbe tornato a riparlare attraverso le pagine di un bellissimo libro come “Nessi tra esperienza etica e politica”, centrato sulle cause che determinano la crisi etico-politica dell’ odierna società. Già allora diceva che dovevano stare attenti a un certo Dell’Utri. Lui ha sempre posto attenzione a quello che gli stava attorno, alla realtà, ma ha sempre detto che una persona non può fare tutto da sola. Mettendosi insieme, unendo le forze, non si diventa violenti, ma più forti, e la forza è un’energia che si può dirigere.
Anche l’acqua può essere a volte pericolosa, dannosa, omicida, assassina ma, se ben gestita, moltiplica le fonti vitali; lo stesso con il lavoro sociale, la scuola, l’educazione, la musica. Questione di energia perché, se tu distruggi qualcosa in una parte del mondo, anche l’altra parte del mondo viene negativamente condizionata. Non in tre secoli non siamo capaci a trovare modalità, interventi, metodologie in cui ci possiamo ritrovare tutti insieme a decidere cosa è meglio fare. Continuiamo a costruire armi e troviamo l’occasione per impiegarle, producendo tutto quello di più orribile passa attraverso la televisione.
Ci regala un ricordo molto personale di papà?
Molto belli erano i momenti in cui cucinavamo insieme, io apparecchiavo, a volte avevamo degli ospiti, cercavamo di preparare una cena più semplice e buona possibile. Poi, però, veniva tutto assorbito dai nostri dialoghi e quello che ci ricordavamo alla fine, magari dopo settimane, era ciò che ci eravamo detti. Anche se il pollo o il pesce erano stati squisiti. Quando, invece, non c’era niente da dire, da raccontare, era bellissimo stare insieme in silenzio. Io lo trovo meraviglioso il potere raggiungere quella profondità, quella intimità che ci fa sentire felici di stare insieme al mondo. L’ho vissuto insieme a papà e alla mamma, a questa nostra famiglia molto particolare, molto impegnata, con degli angoli riservati all’anima, all’amicizia, al sentirsi solidale.
Che valore aveva l’errore umano per lui?
Teneva molto che, almeno a cena, ci fossimo tutti. A pranzo era sempre solo o con la mamma e Chiara, che a scuola aveva il turno pomeridiano di scuola. La sera, intorno alle 18 o 18.30 d’inverno, mentre verso le 19.30 in estate, era importante essere tutti insieme a tavola perché ci raccontavamo la giornata. A volte era tutto bello quello che veniva fuori dalle notizie di cronaca, altre volte meno. Quando c’era qualche attrito, un problema, si risolveva senza lacrime, senza rimproveri o bisticci. Era la nostra occasione, la nostra agorà, in cui ci capivamo.
Quelle che stanno scendendo sono vere lacrime di commozione perché mi viene in mente papà ammetteva di avere sbagliato. Ogni tanto sento descrivere Danilo Dolci come una persona autoritaria. Ciò che rispondo io è che la sua è stata l’esperienza umana di una persona con molta autodisciplina, che voleva che ognuno facesse la propria parte. Se lo aspettava, così come noi ce lo aspettavamo da lui. Questo rendeva tutti più autentici, più impegnati; difficilmente qualcuno si tirava indietro, non ci potevamo permettere per motivi etici di fare gli scansafatiche.
Se oggi dovesse raccontare suo padre Danilo, più che Danilo Dolci come personaggio pubblico, in che modo lo farebbe?
Come un poeta che ha imparato da tantissimi e ha distillato in versi anche memorabili la vita. È riuscito a interpretare l’essere umano attraverso la coralità, ma anche grazie alle cose che ci uniscono e che ci rappresentano tutti nella nostra diversità. Lui le ha raccontate, esprimendo in poesia la sua massima sintesi.
In apertura Danilo Dolci a Partinico (questa e altre foto contenute nel servizio provengono da diversi archivi storici)
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