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Cooperazione & Relazioni internazionali

I cooperanti non sono kamikaze

Parla Giangi Milesi, presidente di Cesvi: «non si può sostenere un dibattito di verità assolute. Non esitono protocolli ma solo una disciplina. Sono talmente tante le variabili sulla sicurezza che una quota di rischio ci sarà sempre»

di Lorenzo Alvaro

Sul caso di Greta e Vanessa le due volontarie rapite in Siria e tornate a casa in queste si è scatenato un forte dibattito. Discussione acuita anche dal fatto che per la liberazione sembrerebbe essere stato pagato un riscatto a seguito di una trattiva con i terroristi. L'accusa più gettonata è che ci sia stata troppa leggerezza da parte della ong e delle due ragazze nell'andare a lavorare in una zona calda. Ma è così? Per capirlo bisogna però andare a vedere come queste missioni vengono preparate e organizzate. Per farlo abbiamo parlato con Giangi Milesi, presidente di Cesvi.  
 

Greta e Vanessa

Milesi in molti si dicono contrari al pagamento di riscatti ai terroristi. Lei che ne pensa?
La vita umana è il bene più prezioso che dobbiamo tutelare. D'altra parte i negoziati si fanno con i nemici non con gli amici. In più la logica della fermezza non paga e l'abbiamo già sperimentato anche in Italia.

Detto questo, visto che la vita è il bene primario, non si può metterla a rischio inutilmente…
Certo, non bisogna metterla a rischio senza prendere tutte le precauzioni del caso. Bisogna prima di tutto avere a cuore la sicurezza delle persone. Spero però che quello che è successo a Greta e Vanessa non faccia perdere l'entusiasmo a chi pensa di anadare  a fare il volontario all'estero. Bisogna chiarire che non esistono regole buone per tutti

In che senso?
Faccio un esempio. In questo momento noi come Cesvi siamo in Somalia a Mogadiscio. “Médecins sans frontières” invece hanno deciso di non esserci perchè hanno valutato che per loro era troppo pericoloso. È un modo per dire che le variabili da tenere presente sono tantissime.

Proviamo a spiegare quali sono queste variabili…
Il tema della sicurezza è molto complesso. È un tema che va affrontato sin dal principio, in fase di ideazione dei progetti. Non eistono protocolli o una prassi univoca per ogni situazione. Ci sono però delle bune discipine da seguire.

Proviamo a spiegare queste discipline?
Un tema che riguarda il modus operandi che dovrebbe contraddistinguere le ong è quello dell'imparzialità e delle partecipazione. Entrambe dovrebbero favorire l'accettazione della presenza di una realtà sul territorio. Ma non basta. Bisogna considerare che il nostro personale è diventato target. Sopratutto dopo l'11 settembre e le guerre conseguenti siamo obbiettivi oggi per l'industria dei rapimenti. Questo vuol dire che non dobbiamo lavorare solo sul fronte della accettazione ma anche su protezione e deterrenza. Che sono i tre rami dei piani di sicurezza. Questo significa che per ogni posto ci vuole una strategia mirata. Ricordo che in Bosnia ci volle un servizio di sicurezza perchè c'era ostilità nei nostri confronti. Anche la selezione del personale è importante. L'analisi della situazione in cui si va a operare è fondamentale. C'è poi la valutazione dell'acettabilità del rischio. Se io vado a curare l'ebola il rischio di ammalarsi è accettabile. Se faccio istruzione in un paese dove è c'è ebola il rischio di essere infettati invece non è accettabile. Per concludere ci sono minacce specifiche per la cooperazione che bisogna tenere in conto. Per questo esiste un sistema che si chiama “Semaforo Paesi”. I Paesi sono divisi in due grandi gruppi. Ci sono quelli "verdi” dove abbiamo piani di protezione mentre in quelli a semaforo rosso abbiamo invece piani di sicurezza.

Avete anche rapporti con le istituzioni?
Lavoriamo soprattutto con l'Unità di Crisi della Farnesina. Ma siamo in stretto contatto anche con le reti europee e con le Nazioni Unite. È il modo per tenere alto il livello d'informazione.

Anche tenendo conto di tutte queste discipline però il rischio non è mai zero?
No, non sigifica avere rischio zero, ma solo mitigarlo. Alle discipline poi si agiungono altri accorgimenti come la preparazione e la formazione del personale o i periodi di riposo per limitare lo stress. Per cui il volontario non può fare più di due mesi consecutivi sul campo.

Cevsi non è in Siria, qual è il motivo?
Per noi la Siria rappresentava un rischio inaccettabile. Dunque abbiamo escluso un nostro intervento.

Questione che però non significa che Greta e Vanessa siano state mandate allo sbaraglio…
Esatto. Premetto che sulla questione delle due ragazze non voglio dire nulla. È troppo delicato. Ma voglio che ci sia rispetto per il lavoro di tutti. Il modo di ragionare di queste ore è sbagliato perchè parte dal presupposto che ci sia una verità chiara e certa. Invece, proprio per le variabili in gioco, può succedere quello che è successo anche se si sono prese tutte le precauzioni del caso.


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