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Politiche di sviluppo

Dalla lotta contro le povertà alla sostenibilità. La cooperazione internazionale cambi obiettivi

Lo sviluppo di gran parte dei Paesi (una volta categorizzati come sottosviluppati) oggi richiede un’azione differente dalla semplice lotta alla povertà. Bisogna fortificare le istituzioni pubbliche e le infrastrutture di mercato favorendo lo sviluppo di nuove industrie capaci di attrarre investimenti green e sociali

di Filippo Addarii

A uun mese  di distanza dalle dichiarazioni governative di lancio del Piano Mattei, la nuova strategia di cooperazione con i Paesi africani voluta dal governo Meloni, e a conclusione dei lavori di COP28 che succede alla cooperazione internazionale?

Nell’immaginario politivo italico la cooperazione è un coacervo di compassione caritatevole di matrice cristiana, spirito di solidarietà tra i popoli, il tutto condito da un implicito senso di superiorità che, negli ultimi 20 anni, si è mostrato in tutto il suo splendore nel dibattito sull’immigrazione. 

Ma i sentimenti sono lontani dalla realtà. La mancanza di una tradizione coloniale e l’esperienza ancora troppo acerba della società multiculturale relegano i politici italiani a una comprensione superficiale della materia. La cooperazione internazionale è tutt’altro che una velleità umanitaria o filantropia privata. Ancora meno la gestione della miseria altrui. È, piuttosto, parte integrante della ragion di Stato quando questa si esprime sul piano della geopolitica. 

Tanto a destra che a sinistra storici e analisti riconoscono la funzione della cooperazione come parte integrante dell’apparato al servizio del dominio mondiale dei Paesi occidentali. Più esattamente, di quello che fu. Alle origini, all’epoca degli imperi coloniali, la cooperazione era strumento di condizionamento culturale attraverso l’opera dei missionari, poi strategia economica nella Guerra Fredda con i programmi per lo svilupppo e, negli ultimi trent’anni, nell’epoca della globalizzazione, è diventata fattore determinante nell’indottrinamento dei popoli alla trinità laica di democrazia, libero mercato e Stato di diritto grazie all’opera combinata di agenzie nazionali, banche multilaterali, fondazioni filantropiche e organizzazioni non governative. E aggiungerei: anche la finanza per lo sviluppo sostenibile. 

Non fraintedetemi, sono innegabili i benefici per le vittime della povertà, disastri naturali e guerre. Io per primo ho sempre giocato in questa squadra. La mia prima esperienza professionale è stata nella ricostruzione post bellica dei Balcani. Allo stesso tempo, non possiamo disconoscere la funzione determinante di controllo politico e sociale che svolge la cooperazione e per cui è finanziata dagli Stati. Un’analisi critica così brutale può urtare gli animi gentili, ma è una necessaria presa di consapevolezza da non fraintendere come una condanna. Soprattutto quando le alternative non offrono esiti migliori. 

Discordate pure dall’interpretazione storica, ma dobbiamo tutti convenire che siamo di fronte al mutamento rapido del quadro geopolitico sotto la spinta di forze tettoniche: erosione dell’egemonia politica e militare dell’Occidente, ribilanciamento economico e demografico, cambiamento climatico. 

Da qui il mio interesse per il piano Mattei che riconosce, a ragione, la necessità di una nuova strategia dell’Italia nel rapporto con i Paesi del continente africano (che dovrà essere integrata con quella del Medio Oriente). Lo stesso vale per i nuovi strumenti attuativi quale, per primo, il Fondo Italiano per il Clima: 4 miliardi di euro per la transizione climatica dei Paesi in via di sviluppo. Queste due iniziative dimostrano che anche l’Italia si sta attrezzando per affrontare la sfide della nuova geopolitica e lo fa con iniziative di tutto rispetto nel panorama internazionale. 

Ora la strategia è necessaria, ma non è sufficiente. Prima di entrare in campo serve passare alla tattica, serve comprendere le nuove condizioni in cui operare soggette a delle trasformazioni profonde a cui la cooperazione internazionale deve rispondere. 

Primo, lo sviluppo di gran parte dei Paesi (una volta categorizzati come sottosviluppati) oggi richiede un’azione differente dalla semplice lotta alla povertà. Bisogna fortificare le istituzioni pubbliche e le infrastrutture di mercato favorendo lo sviluppo di nuove industrie e capacità di attrarre investimenti. Questo si traduce spesso nella necessità di ridurre la dipendenza dalle importazioni di idrocarburi e creare una strategia di investimento che valorizzi gli asset naturali del Paese con strumenti finanziari appropriati come blue bond e sustainability-linked bond

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Secondo, lo sviluppo non può dipendere semplicemente dai trasferimento di risorse dai Paesi industrializzati. La transizione climatica dei Paesi in via di sviluppo è la più grande occasione di mercato del nostro tempo. Blackrock fornisce una stima tra i 3 e i 4 triliardi di dollari americani in investimenti pubblici e privati per i prossimi 10 anni. Archiviamo la vecchia cooperazione. Servono nuovi modelli di partnership pubblico e privato, blended finance per l’appunto, per mettere le forze di mercato al servizio dello sviluppo. 

Terzo ed ultimo, organizzazioni come Undp create per promuovere lo sviluppo sostenibile devono metabolizzare il cambiamento e cambiare la propria funzione trasformandosi da veicoli per il trasferimento di sussidi ad agenti dello sviluppo sostenibile che operano come advisor per governi e stakeholder pubblici e mobilitano le forze del settore privato, ma contrariamente ai consulenti vampiri, tutalando, non sfruttando la missione pubblica del mandato. 

Paesi come l’Italia, compreso che la nuova geopolitica è marcata indelebilmente dall’agenda della sostenibilità, devono cimentarsi sul campo in progetti che diventano laboratori per l’innovazione per cambiare la propria relazione con il resto del mondo ma anche come terreno di addestramento per equipaggiarsi adeguatamente a gestire il cambiamento epocale.

Foto di Atul Pandey su Unsplash


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