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Dopo il caso Palenzona

Fondazioni: è il momento di ripensare ai modelli di governance

Oggi troppo di frequente non è tanto la strategia ad essere oggetto di contesa, quanto garantire posizioni di potere, spesso in funzioni dei pesi e contrappesi dei territori. Un meccanismo che non funziona più

di Federico Mento

Qualche tempo fa su queste colonne, avevo scritto della crisi dei territori, in particolare dell’implosione dei modelli di governance, cioè di quelle strutture di rappresentanza, la cui missione dovrebbe garantire appunto il “governo” inclusivo dei territori. Molte di queste istanze sono state pensate, disegnate e costruite nel corso della transizione tra la prima e la seconda Repubblica, per accompagnare il salto dalla società fordista a quella post fordista, sulla specificità tutta italiana dei modelli produttivi e sociali dei distretti.

Nell’ulteriore repentino passaggio al post-postfordismo, contraddistinto dall’accelerazione esponenziale dei cambiamenti, quelle strutture dimostrano di non essere più adeguate a governare la complessità dei territori. In quel contributo, annoveravo le fondazioni di origine bancaria tra i soggetti della governance di territorio alle prese con la crisi della missione.

Le recenti vicende che hanno interessato alcune fondazioni, senza entrare nell’aneddotica o nei retroscena che tanto piacciono alla stampa generalista, evidenziano una sorta di pattern che potrebbe nel tempo divenire ricorrente e sul quale penso sia opportuno riflettere, con la consapevolezza che si entra in un campo minato proprio per il peso specifico che questi attori assumono nei diversi territori.

Questi sussulti istituzionali ci restituiscono i primi segnali della crisi della rappresentanza delle fondazioni e del loro ruolo, anche alla luce della fragilità dei diversi dispositivi giuridici, non proprio coerenti, che si sono susseguiti dalla legge Amato ad oggi, per cercare di trovare il giusto equilibrio tra interesse pubblico e governance privata.

Ma ciò a cui stiamo assistendo, a differenza degli anni dei non-performing loans e delle dirompenti crisi patrimoniali, ha a che vedere con la capacità delle governance di trovare, nel confronto e nel dialogo, delle visioni condivise di futuro per la propria comunità. In una certa misura, queste modalità assomigliano molto a ciò che accade nel dibattito pubblico, dove gli attori istituzionali sembrano aver smarrito sia la grammatica sia lessico per costruire un’agenda minima comune. Così come nella vita pubblica, assistiamo alla radicale polarizzazione delle posizioni che divergono al punto da divenire di inconciliabili, questo stesso meccanismo viene replicato nei presidi della governance delle fondazioni, con l’esito di frettolose sostituzioni di classe dirigente, dove non è tanto la strategia ad essere oggetto di contesa, quanto garantire posizioni di potere, spesso in funzioni dei pesi e contrappesi dei territori. La soluzione non può essere quella di riportare indietro le lancette al periodo della lunga “pax guzzettiana”, che ha certamente avuto il merito di esercitare una visione profonda e coraggiosa sul ruolo e la missione delle fondazioni, generando alcune iniziative visionarie: prime fra tutte l’istituzione della Fondazione Con il Sud e la creazione del Fondo per il contrasto delle povertà educative. Iniziative che avevano l’ambizione di sollevare un po’ la testa dal territorio, alzando lo sguardo dalle proprie comunità per abbracciare un orizzonte più ampio.

La grande questione da affrontare è il ripensamento dei meccanismi della governance delle fondazioni: come li attualizziamo in una società sempre più complessa e pulviscolare, dove la capacità delle leadership di leggere per tempo l’impatto delle trasformazioni diviene una funzione chiave per articolare le strategie, e far sì che le fondazioni sappiano stare nelle complessità, ma soprattutto siano nelle condizioni di gestirla.

Così come ampliamo la capacità di ascolto dei territori, che non può più essere limitata alla logica della rappresentanza di questo o quel territorio negli organi di indirizzo, quasi fosse la tavola del Risiko. Perché lì c’è evidente il rischio dell’autoreferenzialità, a causa dell’obsolescenza di meccanismi preposti all’ascolto, disegnati  in base all’idea di partecipazione e rappresentanza del secolo scorso.

Alla luce della rilevanza delle fondazioni nella vita di molti territori, sarebbe opportuno aprire uno spazio di confronto per comprendere come, da un lato, poter mettere in sicurezza la missione delle Fondazione di origine bancaria – abbiamo diversi esempi di continuità della visione filantropica grazie a passaggi dolci tra vecchie e nuove leadership – mentre, dall’altro, ripensarne al ruolo nel tempo che sarà.

E questo sforzo concettuale deve necessariamente partire dalle diverse esperienze che hanno visto assumere alle fondazioni bancarie un ruolo sempre più sofisticato, ben oltre il pedissequo perseguimento del mandato erogativo. Penso alle iniziative volte alla costruzione e rafforzamento delle infrastrutture sociali, all’incremento del capitale sociale, alla capacitazione delle organizzazioni della società civile, alle esperienze di investimento sociale, all’adozione di modelli di co-progettazione ecc.

La sfida naturalmente non passa solo per la borsa degli attrezzi, né può essere risolta nello spazio sempre più angusto degli organi di indirizzo. Cerchiamo, piuttosto, di affrontarla insieme, Enti del Terzo Settore accanto alle fondazioni e ad Acri, offrendo nuove prospettive sui modelli di leadership, sul dialogo, sulla co-creazione, sulle partnership, perché se aspettiamo sia la politica ad occuparsene, come avrebbe detto mia nonna, campa cavallo che l’erba cresce.

Foto La Presse: Il presidente dimisisinario di Fondazione Crt Fabrizio Palenzona


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