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il senso delle parole

Lavorare non significa più “fare soldi”

Allargare il senso del lavoro e recuperare il significato di “attività per gli altri” ha un profondo valore rivoluzionario. Passa da questa riforma linguistica il riscatto della classe sociale che non gode di privilegi e proprio per questo è chiamata “classe lavoratrice”.

di Simone Cerlini

Una delle dispute più profonde e potenzialmente fertili nel mondo della cultura contemporanea è il linguaggio e il suo impatto sul modo di pensare di agire. Sembra paradossale in un’epoca in cui il reale si mostra in tutta la sua violenza e il suo orrore, ma non lo è.

Tra i contendenti c’è chi progetta una neolingua, nella convinzione, con Orwell e Sapir-Whorf, che se non abbiamo le parole per dire la realtà, allora non possiamo nemmeno pensarla e dunque conviene agire sul linguaggio per plasmare una nuova cultura (quando non proprio l’uomo nuovo), oppure ci sono autori che preferiscono giocare sui confini delle parole per vedere l’effetto che fa.

Perché le parole hanno confini. Lo dimostra molto bene Hjemslev e per capirlo possiamo riportare un suo esempio: in francese bosco si dice bois, ma anche per “legno” si usa la stessa parola. In Italia abbiamo il “bosco”, un’area alberata, e la foresta, che ne differisce per essere più ampia e selvaggia. Ora, Hjemslev mi fa notare che il senso di bois (così come per l’inglese wood) è propriamente quell’area alberata che serve per fare legna, senso che si perde completamente in italiano. “Bosco” da noi è separato, strutturalmente, da “legno”. Insomma le traduzioni, si sa, modificano i significati, ma qui conta il fatto che il linguaggio, anzi ogni singola parola significa non in modo univoco, ma attraverso relazioni con le altre parole, attraverso partizioni, segmentazioni del campo dei significati. Le parole rimandano dunque a nuvole di significati mobili, a porzioni di senso che possono ampliarsi o restringersi.

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Umberto Eco parlava di “campo semantico”. Le parole segmentano questo campo e quel segmento rappresenta il significato. Ora, il fatto è che quei confini sono mobili e a volte conviene lavorare non tanto per cambiare, elidere, annullare le parole e magari sostituirle, ma conviene stiracchiarne i confini.

Potrebbe sembrare ozioso riportare dentro al significato di “bosco” anche il senso di “legno”, ma ci sono altre parole che hanno perso valore per strada (ritengo in modo truffaldino da parte dei ceti privilegiati) e forse conviene ripensarle. Penso che sia arrivato il momento in particolare di stiracchiare i confini del termine “lavoro”. Oggi sembra diventato sinonimo di “attività retribuita”, in cui scambio con il datore di lavoro tempo con il denaro necessario per sopravvivere. Si tratta di un’attività opposta alla al “tempo libero” e alla “libertà” (sono schiavo del padrone, del direttore, del capo), routinaria, spesso senza senso. Questa contrazione del senso del lavoro è un fenomeno molto recente, che causa effetti distorsivi. La conseguenza più nociva è rinchiudere le persone nel loro individualismo, nella ricerca del proprio benessere personale.

Nancy Folbre con determinazione e pervicacia ci ricorda che ogni forma di lavoro può essere definita lavoro “di cura” nel senso che dà luogo ad attività che aiutano a soddisfare i bisogni degli altri

Una posizione affatto diversa sta nel lavoro di Nancy Folbre, che con determinazione e pervicacia ci ricorda che ogni forma di lavoro può essere definita lavoro “di cura” nel senso che dà luogo ad attività che aiutano a soddisfare i bisogni degli altri. L’opera della Folbre è giustamente celebre per le sue implicazioni nella questione di genere, nel mettere in luce come molte attività, come l’assistenza ai bambini, ai malati e agli anziani, spesso svolte da donne, abbiano un valore economico significativo, anche se non sono quantificate o riconosciute nei modelli economici tradizionali.

Il contributo fondamentale della Folbre è sì ricordarci che anche il lavoro di cura è lavoro, ma soprattutto che il lavoro è sempre anche lavoro di cura. Se non assumiamo questo punto di vista allora neppure ci avviciniamo a quanto ci vuole dire l’economista americana. Questo semplice assunto, che sta da qualche parte nella nostra memoria, come sopravvivenza culturale di un mondo passato, ha delle conseguenze rilevanti.

Lavorare può bastarci se vogliamo semplicemente far soldi. Quando invece vogliamo qualcosa di più, come ampliare i nostri orizzonti, godere della bellezza, combattere per la giustizia, allora guardiamo al lavoro con sospetto. Sembrano attività più adatte al “tempo libero”. Ma ecco che allora tutte le attività “di senso” sono riservate alle élite, coloro che detengono capitale economico, culturale e relazionale. Sappiamo bene che le élite hanno riservato a loro stesse tutte quelle posizioni in cui si può venir pagati per fare qualunque cosa si faccia per una ragione che non sia il denaro (per il piacere estetico, per l’ammirazione e la popolarità, per il gusto della ricerca). Ma c’è spazio per tutti quando vogliamo impegnarci a fare un lavoro che abbia davvero senso, cioè quando vogliamo impegnarci per gli altri.

Conviene insistere su una nuova ripartizione del campo semantico: il lavoro è quel tempo che spendiamo per gli altri, il tempo libero è quel tempo che spendiamo per noi stessi. Ecco perché allargare il senso del lavoro e recuperare il significato di “attività per gli altri” ha un profondo valore rivoluzionario. Passa da questa riforma linguistica il riscatto della classe sociale che non gode di privilegi e proprio per questo è chiamata “classe lavoratrice”.

Foto di Jack Finnigan su Unsplash


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