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Formazione

Le soft skills da sole non bastano, il lavoro ha bisogno di persone felici

Hanno bisogno cioè di esseri umani equilibrati, solidi, ancorati a radici ideali e culturali che consentano loro di essere davvero empatici, curiosi, aperti al nuovo, comprensivi, dialoganti, capaci di accogliere le differenze e di puntare su ciò che unisce e che è durevole

di Antonio Palmieri

Anche nell’era dell’intelligenza artificiale generativa la formazione e il mondo del lavoro continuano ad avere al centro l’essere umano.

Questo è il contenuto principale che ho recepito dalla giornata di ascolto e di formazione che mi sono “regalato” lo scorso 26 ottobre a Roma, partecipando a “Edutech Challenges”, organizzato da Talent Garden.

Con dati, esperienze e riflessioni, relatrici e relatori hanno ribadito la centralità delle competenze trasversali, le soft skills: empatia, attenzione all’altro, capacità di ascolto, di comunicazione, di lavorare in gruppo e di risoluzione dei problemi, disponibilità a imparare cose nuove. Queste capacità un tempo non venivano considerate importanti, mentre oggi sembrano essere diventate decisive. Al riguardo, una relatrice ha utilizzato il termine “transilienza”, parola che unisce transumanza e resilienza. Essa indica la capacità di trasferire le proprie competenze trasversali da un ambito all’altro della propria vita lavorativa, a dimostrazione del fatto che sfera personale e sfera lavorativa non sono due cose distinte, ma si sostengono l’un l’altra. Anzi, proprio queste competenze, che vengono prima delle competenze tecniche, sono considerate necessarie per affrontare al meglio questo tempo di cambiamento continuo.


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Questo approccio olistico, che guarda l’intero dell’essere umano, è senza dubbio un grande passo in avanti, che però a mio avviso ha bisogno di due presupposti. Il primo è, manco a dirlo, di carattere esistenziale: le soft skills e la transilienza hanno bisogno di persone “felici”. Hanno bisogno cioè di esseri umani equilibrati, solidi, ancorati a radici ideali e culturali che consentano loro di essere davvero empatici, curiosi, aperti al nuovo, comprensivi, dialoganti, capaci di accogliere le differenze e di puntare su ciò che unisce e che è durevole. Esattamente il contrario di quello che la società liquida propone come modello esistenziale. 

Il secondo presupposto, ha invece a che fare con il nostro rapporto con l’intelligenza artificiale e con i concetti di responsabilità sociale aumentata e di capitalismo della responsabilità ai quali ho già fatto riferimento nei miei interventi dei mesi scorsi.

Un imprenditore (grande, medio o piccolo non importa), un professionista, un manager, cosa sceglierà tra avere in azienda un giovane (uno junior, come dicono coloro i quali lavorano alle risorse umane) o fare un abbonamento a un software di intelligenza artificiale generativa, che gli offre le stesse performance lavorative molto più rapidamente del giovane umano e che costa solo poche decine di euro al mese? Cosa sceglierà tra affrontare la fatica che ogni rapporto tra persone inevitabilmente porta con sé o relazionarsi con un software che, per definizione, non si ammala, non va in ferie, lavora sette giorni su sette, non rimane incinta, non ha un sindacato?

Questo è un punto decisivo, che conferma il fatto che l’intelligenza artificiale generativa è davvero una sfida alla nostra umanità, in questo caso quella dell’imprenditore, del manager, del professionista, dell’investitore. Se essi decideranno di prendere la via breve, quella che abbatte immediatamente i costi e quindi elimina il giovane “apprendista”, la prospettiva è quella di andare incontro a un fenomeno che possiamo definire “inverno demografico del lavoro”. Si tratta della variante in ambito lavorativo del drammatico calo delle nascite che da decenni purtroppo affligge il nostro Paese. Se tra i decisori aziendali prevalessero le scelte di corto respiro e fondate solo sul taglio immediato dei costi, nel medio-lungo periodo rischiamo di avere la sostituzione non etnica ma lavorativa dei giovani con i software di intelligenza artificiale generativa. Il risultato finale  sarebbe l’azzeramento (o quasi) in diversi settori di intere coorti di lavoratori e anche la fine di quel rapporto formativo tra “maestro” e “allievo” che, a volte esplicitamente, a volte fattualmente, ha caratterizzato l’ingresso delle nuove generazioni nel mondo del lavoro.

È evidente che la scelta migliore, quella davvero generativa, consiste nell’affiancare al giovane in azienda l’intelligenza artificiale generativa e insegnargli come utilizzarla, in modo tale da velocizzare il proprio lavoro e migliorare il proprio rendimento, delegando al software le azioni più monotone e ripetitive. 

Tutto si gioca nelle scelte che manager, imprenditori, professionisti, investitori sceglieranno di assumere da qui ai prossimi anni. Saranno attratti da iniziative in cui il “Ritorno sulla società” (ROS) sia in equilibrio con il ritorno sull’investimento (ROI), come auspicato da Nicola Palmarini – esperto in innovazione e longevità, direttore del NICA – UK National Innovation Centre for Ageing e componente del comitato scientifico della Fondazione Pensiero Solido – nella sua intervista a Forbes di pochi mesi fa? Oppure ripiegheranno solo su un concetto ristretto di profitto?

Sia chiaro: come ha detto Tito Boeri nella sua intervista a La Stampa del 31 ottobre, con ľ’intelligenza artificiale generativa, si aprono scenari inediti e diversi rispetto a quelli che sono stati analizzatI finora. Ma di questo progresso abbiamo bisogno. Non possiamo farne a meno. Non è un’opzione rinunciarci, dobbiamo imparare a gestirlo per evitare che ci siano conseguenze svantaggiose. Indietro non si torna. L’intelligenza artificiale generativa ci apre prospettive straordinarie. Tuttavia essa è uno specchio, riflette quello che noi ci mettiamo dentro e ci mette di fronte a scelte strategiche da compiere. 

Come sostiene Cosimo Accoto – filosofo del digitale, research affiliate e fellow al MIT di Boston e componente del comitato scientifico della Fondazione Pensiero Solido – tutti si affannano a cercare regole. L’arrivo di un’Al estrattiva, discriminativa, predittiva, generativa e agentiva…apre una nuova fase di incertezza interpretativa intorno all’orizzonte del futuro del lavoro. Si avvierà una nuova dialettica intricata e aperta tra “automation” (sostituzione), “heteromation” (subordinazione) e “augmentation” (aumentazione) dagli esiti incerti, in sperimentazione e tutti da studiare.

In questo scenario, USA, Europa, G7 si affannano a cercare regole e leggi, capaci di forzare dall’esterno imprenditori e investitori verso le scelte socialmente più responsabili.  Da sempre in fondo questo è il compito delle leggi. E se al potere delle leggi affiancassimo e facessimo leva sul fatto che non sempre e non tutti gli esseri umani decidono in base al proprio immediato tornaconto e che vi sono imprenditori, manager, investitori capaci di scelte lungimiranti e generative non in forza di una legge esterna ma di valori e ideali?

Foto di StockSnap da Pixabay


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