Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Education & Scuola

Indonesia. La denuncia di un operatore. Banda Aceh, l’ingorgo degli aiuti

Tantissime sigle, satellitari da ogni parte. E tante scatole di cibo che non si possono distribuire perché non si è è pensato che qui sono musulmani...

di Marco Scarpati

Le strade di Banda Aceh sono colme di veicoli di grossa dimensione che sollevano una polvere che ti si blocca in gola. Molte persone hanno una strana tosse, persistente e fastidiosa, che interviene a interrompere anche brevi discorsi. In diversi dei giardini, un tempo fioriti, spiccano antenne satellitari e rumorosi gruppi elettrogeni. Bandiere di molti colori e con sigle incomprensibili spuntano da ogni dove. In tende bianche con simboli azzurri stanno più computer di quanti se ne fossero mai visti in tutta Sumatra. È l?aiuto umanitario che si è mosso. E che sta creando anche alcuni problemi, se è vero che la stessa Ocha (l?organismo di coordinamento degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite) ha già diramato alcune circolari sull?aumento degli affitti delle case che potrebbe causare difficoltà con i locali. Villette che fino a Natale potevano affittarsi a meno di 200 dollari al mese sono schizzate, nel giro di pochi giorni, a mille e più. In realtà a preoccupare il personale delle varie agenzie è l?afflusso in zona di ong cristiane (spesso protestanti) che ostentano la loro simbologia. Grossi scatoloni di alimenti, provenienti da chiese di Paesi lontani, restano intonsi all?eliporto. Meglio portare cibo di Paesi musulmani, sulla cui composizione non ci sono dubbi. La provincia di Aceh non è mai stata facile per gli stranieri. Da queste parti hanno tentato di penetrare in molti, dagli olandesi ai portoghesi, ai mai amati giavanesi, ma alla fine hanno sempre dovuto rinunciare e lasciare spazio ad altri. Gli aceniesi. Qui lo tsunami ha dato il peggio di sé. Il terremoto è arrivato verso le 7 del 26 dicembre con una notevole forza distruttiva. Girando per la parte alta della città si vedono palazzi , scuole, shopping mall ripiegati su se stessi o interamente collassati. Nessuno ha ancora toccato quelle macerie e il loro carico di morte. Meno di 30 minuti dopo, un?onda impressionante è giunta al porto della città. Era alta più di 35 metri. Come un palazzo di undici piani. Quando si è ritirata non ha lasciato solo macchine accartocciate, ma macerie nere, fango e follie che sembrano ideate da uno scenografo pazzo: navi mercantili fra le case a due chilometri dal porto, morti posati sugli alberi a dieci metri di altezza. Secondo le statistiche ci sono stati 250mila fra morti e dispersi, e 16mila orfani. Ma chiunque vi dirà che la realtà è ben peggiore e che i morti reali sono almeno il doppio. In elicottero, volando per 300 chilometri, si vedono solo morte e distruzione. Qui l?onda ha modificato la geografia: ci sono isole laddove erano promontori, la spiaggia è stata spostata e la strada e i ponti non esistono più. La cittadina di Calang, una striscia di terra che dava su un mare di smeraldo, è esplosa. Dei 13mila abitanti ne sono sopravvissuti alcune centinaia. In tutta la provincia i pescatori hanno paura del mare e nessuno mangia più il pesce. A Meulaboh, una città della costa ovest, parliamo con i membri delle ong musulmane presenti. Ci accolgono con simpatia, mentre guardano con sospetto altri gruppi nazionali. Il campo predisposto dall?esercito americano (il cui ruolo qui è stato di altissimo valore: sono intervenuti fra i primi a sostegno delle popolazioni ferite) è vuoto. La gente preferisce accalcarsi in tende più ?amiche?: sono sorti più di mille campi profughi, che nelle intenzioni del governo dovrebbero trasformarsi in villaggi semi-provvisori di legno. Gruppi di 20 famiglie dovrebbero alloggiare in ?long houses?, per un periodo di due anni (il tempo di uscita dall?emergenza) che tutti qui sanno essere solo indicativi. La classe dirigente della intera provincia è sparita, a volte morta o, più spesso, ferita mortalmente nella voglia di ricominciare. Poche le realtà italiane nell?area. Alisei e Terre des hommes sono arrivate presto e stanno lavorando bene. Miriam di Alisei è arrabbiata con il nostro Paese, che qui brilla per la sua assenza. Si sfoga con me, giunto qui con una piccola delegazione del nostro ministero degli Esteri. Manca tutto e tutto va a rilento. «Dov?è l?elicottero che ci è stato promesso dall?Italia? Non riusciamo a raggiungere i villaggi più lontani». Anche Terre des Hommes è a est, fra le comunità di pescatori. Con Stefania e Luca del Gvc condividiamo alcune preoccupazioni e li indirizziamo verso una associazione che conosciamo, Pkpa-Ecpat Sumatra per la gestione di campi profughi sorti spontaneamente e abbandonati dalle grandi realtà internazionali. Cerchiamo altre ong italiane, ma è inutile. Eppure qui il bisogno è assoluto e non sarebbe un male impegnare il sistema Italia in un Paese islamico, per una vera azione di pace che, una volta tanto, non segua una guerra più o meno dichiarata. Ma pare che quasi tutti gli italiani siano altrove: in Sri Lanka, per il momento?


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA