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La democrazia come optional

di Gianfranco Marocchi

Rimango allibito come disinvoltamente il nostro Paese tolleri gli affronti alla democrazia, e in particolare a quei sistemi di regole che, Sacri e inviolabili, devono costituire garanzia comune per tutti e che quindi  consentono di riconoscersi – cittadini e loro rappresenti, maggioranza e opposizioni – in un unico sistema che unisce al di là dei ruoli e delle diverse opinioni. La considerazione della democrazia come optional eventuale laddove non urti  interessi di parte, poteri costituiti, lobby, istanze europee, economiche, dei mercati o di chicessia sempre presentate – con quelle facce gravi e resopnsabili – come ineludibili, si aggiunge invece agli scandali e ai personaggi impresentabili nel rendere poco credibili le istituzioni.

Vi è stato il periodo buio delle leggi ad personam, che ci rende probabilmente l’unica nazione suppostamente civile in cui un capo del Governo ha modificato depenalizzato delle azioni (falso in bilancio) o accorciato a suo vantaggio i termini di prescrizione (corruzione giudiziaria) per reati di cui era imputato; ma l’allergia delle istituzioni alla democrazia non è limitata a questi atti, è purtroppo più radicata e diffusa.

Pensiamo alla disinvoltura con cui Governo e istituzioni si pongono di fronte agli esiti referendari, espressione supremo della Volontà popolare, dal caso storico del finanziamento pubblico ai partiti a quello recente del referendum sull’acqua, che oggi pare un elemento puramente accessorio del dibattito sui servizi pubblici locali.

Pensiamo all’aver approvato una legge elettorale che esclude la possibilità di indicare le preferenze, lasciando alle segreterie dei partiti la scelta dei rappresentati del popolo.

Passiamo (con riserva e limitatamente e per carità di Patria) l’anomalia in sé di un Governo tecnico, strada inusuale nelle democrazie avanzate. Ma non tralasciamo di notare che una cosa è porre sotto controllo i conti sotto un attacco speculativo senza precedenti, altra è mettere mano a meccanismi regolativi con provvedimenti che, al di là del giudizio di merito, debbono essere il frutto di orientamenti politici e che in quanto tali sarebbero da affidare ad un Governo frutto dell’investitura popolare. Ma come può venire in mente che un Governo tecnico debba “fare le riforme”!?

E infine, è di ieri la presa di posizione del Presidente Napolitano che indica tra gli adempimenti cui assolvere prima del voto la “conclusione del confronto per una riforma della legge elettorale”. Attendevo da giorni una presa di posizione ufficiale, lo aspettavo al varco, il Presidente, per vedere cosa avrebbe detto e cosa no prima di scriverne. Vengono citate – e questo può essere condivisibile – le “aspettative dei cittadini per un loro effettivo coinvolgimento nella scelta degli eletti in Parlamento” (= possibilità  di esprimere preferenze), ma si intende chiaramente che vi è anche altro (“regole più soddisfacenti per lo svolgimento della competizione politica”). Cioè, tradotto in italiano, una modifica dei meccanismi che portano a definire l’assegnazione dei seggi a meno di quattro mesi dalla supposta data delle elezioni, con tanto di sondaggi alla mano.

Un Paese sinceramente democratico – e lo dico da elettore che detesta il “Porcellum” – rifiuterebbe anche solo di porsi la questione, semmai auspicando (e personalmente lo auspico) che il nuovo Governo, qualunque esso sia, metta all’ordine del giorno immediatamente dopo la sua elezione la definizione di nuove regole condivise, con il vantaggio di un dibattito che abbia un orizzonte temporale di 5 anni e che non sia influenzato da calcoli di opportunità contingenti.

Partiti che si vedono perdenti secondo i sondaggi (Pdl e UdC) che  si coalizzano per riscrivere regole in senso peggiorativo per quello che è ipotizzato vincente (PD) o i Presidenti dei due rami del Parlamento  – e soprattutto il Presidente del Senato Schifani – che parlano a ruota libera di evitare  possibili esiti positivi di forze politiche outsider (5 Stelle) e oggi lo stesso Presidente Napolitano che dopo non aver speso in queste settimane nemmeno un monituccio contro qualsiasi alterazione dei meccanismi di attribuzione dei seggi a ridosso delle elezioni, oggi interviene in questo modo: tutto ciò costituisce uno spettacolo deprimente, inimmaginabile in qualsiasi Paese democratico avanzato.

Un sincero democratico non può nemmeno farsi passare nei pressi della mente pensieri di questo tipo. Dovrebbero essere l’impensabile, l’indicibile, il comunque e sempre escluso, senza se e senza ma. Cambiare le regole democratiche con un occhio ai propri interessi – o anche semplicemente conoscendoli – è come entrare in una Chiesa in perizoma e con la radio a tutto volume, è come fare pipì su una lapide in un cimitero. E’ una violazione che le istituzioni – partiti e alte cariche dello Stato – compiono della Sacralità della democrazia.


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