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La follia seduce la scena

Dietro il disagio di molti “matti” si nascondono talenti straordinari. «Molti professionisti cercano tutta la vita di acquisire le doti che i folli hanno naturalmente»

di Cristina Giudici

I suoi sostenitori pensano che si tratti della rinascita dell?arte, la vittoria della vita e la sua sofferenza contro la smania della tecnica e l?ansia della perfezione. I suoi critici invece credono che sia solo una moda molto trendy, frutto del vuoto culturale del nostro paese. Ma intanto il teatro dei matti continua a crescere. Le compagnie nate all?interno degli ospedali psichiatrici o formate da ex pazienti dei manicomi si stanno moltiplicando. Realtà ed esperienze che fino a ieri erano considerate terreno esclusivo per attori e spettatori marginali oggi stanno conquistandosi il diritto di cittadinanza all?interno dell?arte teatrale. Ci sono compagnie che nascono con intenti terapeutici rivolti agli ex pazienti psichiatrici e poi scoprono di avere a che fare con talenti straordinari. Talenti di attori che, dopo anni di segregazione nei manicomi, sbocciano appena mettono piede sul palco. Come Bobò, che ha passato 40 anni nell?ospedale psichiatrico di Aversa ed è già stato paragonato a Totò. Il suo ultimo debutto è avvenuto al Crt-Teatro dell?Arte di Milano, nello spettacolo Guerra, diretto dal regista Pippo Delbono. Bobò è microcefalo e sordomuto e sul palco ha dimostrato di avere doti innate che attori professionisti cercano, a volte senza trovare, per tutta la vita: grazia, armonia, ritmo, precisione, poesia. Tutto concentrato in una sola persona. O come l?associazione culturale musicoterapica La stravaganza, diretta dallo psichiatra Denis Gaita, che da 15 anni lavora con i pazienti del centro psicosociale della zona 1 di Milano. Recentemente ha debuttato con lo spettacolo L?Aida da tre soldi. Un?opera che s?ispira all?Aida di Giuseppe Verdi e che ha ricevuto persino le attenzioni di una snob per eccellenza come Lina Sotis. Una sorta di melodramma nel melodramma in cui gli attori reinventano la storia verdiana, utilizzando il loro linguaggio onirico, i ?nonsense? della loro vita quotidiana per portare in scena la diversità, la malattia mentale, ma soprattutto la loro arte. «Abbiamo voluto dimostrare che i matti non sono reietti, ma individui capaci di insegnare qualcosa alla società attraverso l?arte», dice il regista Denis Gaita per spiegare la filosofia de La Stravaganza. «Abbiamo scelto l?Aida perchè, come ogni capolavoro, parla del repertorio di fantasmi e paesaggi interiori che ci accomunano tutti, portatori e non portatori di disagio mentale. Tutto lo spettacolo nasce da improvvisazioni di gruppo, un lavoro estenuante e appassionante di associazioni libere sul libretto di Ghislanzoni che, nel corso dei mesi, ha partorito interi mondi associativi e che, a loro volta, ne hanno generati altri e altri ancora, fino a quasi smarrire il filo logico (ma recuperando sensi più inconsci), come succede nelle fantasie innescate dall?ascolto musicale, nei labirinti dei grandi e microscopici deliri che ci percorrono, e nella nostra vita onirica». Poi ci sono quelli che scelgono di fare teatro con i matti seza alcun intento terapeutico, ma solo perché pensano che l?unica arte possibile sia quella che si raggiunge attraverso la pazzia. Come l?Accademia della follia, una rete di gruppi presenti a Trieste, Cremona, Rimini, Padova, Suzzara, Milano (ne fa parte anche l?avvocato Guliano Spazzali) nata otto anni fa. Anima e mente di questa esperienza è Claudio Misculin, che alla fine degli anni ?70, quando Basaglia iniziò a distruggere la ?bestia?, il manicomio, si autoricoverò e ne uscì dopo anni con un progetto: scavare nel talento naturale dei ?matti? attraverso la fisicità e l?eccesso. «La fisicità sgnifica dar voce al proprio corpo» spiega Cinzia Quintiliani, regista dell?Accademia. «Un testo per noi deve essere prima di tutto sentito con il corpo, per liberare le energie della mente. Perciò, per introiettare un testo, lo impariamo correndo. Immagazziniamo i testi nel nostro corpo, attraverso esercizi semiacrobatici. I risultati sono sorprendenti. Enrico per esempio era catatonico e psicotico. Oggi, dopo tre anni, si è trasformato in un attore grandioso. La stessa cosa è successa a una ragazza di Brescia che secondo la cartella clinica non si muoveva né parlava da anni. Ebbene dopo qualche mese è andata in scena urlando e compiendo esercizi acrobatici. Un lavoro che quindi finisce per essere anche terapeutico. C?era una ragazza bulimica, che nella vita non faceva che vomitare. Poi è andata in scena, sempre vomitando. Finché un giorno ha smesso. Perché sulla scena non è richiesta nessuna normalità e la malattia mentale non deve essere repressa, anzi. I nostri attori non devono fare altro che recitare se stessi. A differenza degli attori normaloidi, i nostri attori, pazzi e sciancati, non devono recitare la parte di Napoleone: loro sono Napoleone. Così accade che il teatro fa bene alla follia e la follia fa bena al teatro». L?eccesso invece è un rito. Che Musculin ripete ogni volta che sale sul palco. Al punto che i critici l?hanno definito l?ultimo guerriero teatrale. In scena Misculin si dà fuoco con la benzina, si fa dei tagli sulle braccia o si cuce la pelle. Immergendosi nel delirio, suo e dei suoi attori, per poi riemergere insieme a loro. «Non si tratta di autolesionismo, ma di arte», sottolinea Cinzia Quintiliani. «Claudio porta in scena le sue esigenze, il suo rito, la sua follia, raggiungendo un perfetto equilibrio fra acqua e fuoco. Infatti non è mai successo niente di spiacevole». L?ultimo spettacolo dell?Accademia della follia è il Mattbeth. «Il messaggio del nostro teatro è cercare di restituire dignità alla follia. La malattia mentale è sempre stata considerata un sorta di flagello divino», conclude Cinzia Quintiliani. «Viviamo in una società che produce follia, un mondo in cui la vulnerabilità, la sofferenza mentale e la diversità è sempre più diffusa, non è più nascosta e reclusa nei manicomi. Perciò l?arte è un modo di darle dignità». Ma oggi non sono più solo i matti a salire sul palcoscenico per parlare di follia e diversità; anche psichiatri e attori professionisti sentono l?esigenza di raccontare un mondo mai del tutto svelato che nasconde il mistero della mente umana. Come El Mato, un testo teatrale scritto da un famoso psichiatra, Vittorino Andreoli, e interpretato da un attore professionista che non è mai entrato in un manicomio, Gianni Franceschini. Attraverso il monologo in dialetto veneto, El Mato-Franceschini porta sul palco (degli accusati) gli psichiatri, il manicomio, la televisione, la famiglia, il paradiso extraterreno e soprattutto la normalità. L?attore-regista lavora da solo su una scena scarna e costruisce un monologo ironico e dissacrante. Su un water, si interroga sul rapporto fra anima e corpo. Seduto accanto a una sedia vuota, si immedesima in un pazzo schizofrenico che si rivolge a un interlocutore immaginario, (l?altra parte di se stesso). E davanti a un televisore, realizza il suo sogno di diventare psichiatra e decide di ricoverare d?urgenza il tubo catodico. Simbolico e metaforico, questo spettacolo porta sulla scena il dualismo mai risolto fra follia e normalità: una realtà dicotomica destinata a rimanere tale. Perché, come sembrano voler dire Andreoli (che ha lavorato per 40 anni con pazienti psichiatrici) e Franceschini, che non è mai stato in manicomio (ma gli è bastato lavorare come dice lui «sui miei lati oscuri e inquietantiper scoprire la mia pazzia»), il messaggio è chiaro: da vicino nessuno è normale. Così El Mato, che fa parte di una trilogia che comprende L?Ubriaco e Il Morto, suscita ilarità e scopre in modo crudo il dramma della follia che altro non è se non il dramma delle contraddizioni della vita di tutti i giorni. «Quando Andreoli mi ha chiesto di interpretare El Mato e io gli ho chiesto di entrare in un ospedale psichiatrico, lui mi ha detto di no. Così ho lavorato sulla mia di follia, perchè in fondo ogni attore è schizofrenico, porta sul palco il personaggio che interpreta nella vita di tutti i giorni e quello del copione. Non è stato difficile, mi è bastato scavare sui miei lati oscuri, il resto è venuto da sé», dice Franceschini. «Lo spettacolo rappresenta la storia di una ribellione, istintiva e disarmante, di un matto contro la normalità, la violenza dei manicomi, la famiglia intesa come un tunnel fatto di violenza e oppressione, la chiesa gretta delle province venete. Così il teatro diventa anche uno strumento per suscitare interrogativi, sdrammatizzando i paradossi della realtà. «Faccio l?attore da vent?anni e ho preferito lavorare con i ragazzi perchè hanno la capacità di stupirsi», conclude Franceschini. «Portare in scena la follia vuol dire portare in scena storie di persone che, senza armi, possono creare consapevolezza e alla stesso tempo hanno in sé il dono naturale dell?arte».


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