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La luna e la famiglia

di Gianfranco Marocchi

Primo pensiero: una scorsa alle agenzie sul Festival della famiglia. Da quanto si legge, molti i contenuti sacrosanti: le famiglie come grandi e – al netto della retorica dei discorsi –  misconosciute risorse sociali, le famiglie che rappresentano l’ultimo baluardo di una società con 3 milioni di non autosufficienti, che si sobbarcano il peso dei servizi di cura: sia da un punto di vista economico (9.2 miliardi all’anno, IRS 2011; molti soldi e spesso il posto di lavoro, secondo Cittadinanzattiva 2012; 9.8 miliardi altre fonti) sia da un punto di vista sostanziale, con care giver che si spremono  fino all’esaurimento e alla malattia. Famigile corteggiate elettoralmente da ateodevoti che ammiccano al voto cattolico, inzuppate di sussidiarietà come fossero al centro del mondo e poi desolatamente sole a reggere nell’eroismo quotidiano i congiunti non autosufficienti in una società dove il lavoro di cura è molto spesso un “di più” rispetto alla partecipazione lavorativa o un “invece” rispetto alla conservazione di un proprio status economico e sociale (se il lavoro viene lasciato per la cura).  E non a caso, qualche fischio, a quanto si legge, al Festival della famiglia è partito.

Secondo pensiero: le famiglie come radice di un radicato male italiano, il familismo amorale di Banfield, l’arretratezza culturale di una società in cui le persone mirano ad assicurare vantaggi immediati ai propri congiunti prescindendo – ed eventualmente confliggendo – con interessi più generali e con principi etici.

Terzo pensiero: il lato oscuro, la famiglia cattiva, o meglio la famiglia che fa diventare cattivi. Non tanto quella allo sbando, che per miseria materiale o morale trascura o abbandona i figli. Penso a quella rispettabile,  dove però ogni anno si uccidono ben più di 100 persone, in grande prevalenza donne, spesso per gelosia, per possesso, paradossalmente per non perdere colei che per propria mano si annienta per sempre. Ne ammazza più la famiglia della malavita, titolava un quotidiano; forse sbagliava il paragone, le famiglie sono tante e i malavitosi fortunatamente meno, la statistica non tiene. Però la famiglia genera omicidi più del mondo del lavoro, che invece riguarda 23 milioni di cittadini e dove si avrebbe buon motivo per avercela con il padrone che sfrutta, il dipendente fannullone, il collega opportunista che ti fa le scarpe; ma raramente si uccide. E’ questa anche la famiglia che secondo Istat ha fatto del male a più di 6.7 milioni di concittadine che hanno subito violenza fisica o sessuale, la famiglia delle violenze sui minori, la famiglia delle mille sofferenze silenziose. E’ la famiglia che fa nascere il criminale infame e violento anche in chi delinquente abituale, secondo i normali parametri, non sembrerebbe proprio esserlo. Ed anche, pur meno drammaticamente, delle migliaia di conflitti tra ex coniugi che ogni anno non si riescono a mediare senza ricorrere ad un giudice, dell’infelicità, dell’astio e del rancore.

E allora mi chiedo: parliamo dello stesso oggetto? La famiglia di chi si annulla nella cura del congiunto è la stessa di chi picchia, violenta e talvolta uccide? Sarebbe semplicistico rispondere decisamente di no: da una parte ci sono i buoni, gli eroi; dall’altra i violenti, i reprobi, una luna con il  lato luminoso, anche se pallido e affaticato da una parte, e quello oscuro dall’altra. Probabilmente nella gran parte dei casi è vero (anche se i numeri sono così alti… sei milioni di vittime e tre milioni di accuditi: statisticamente difficile che non vi siano coincidenze), però mi pare necessario un passo in più.

Forse  vi sarebbe una riflessione in più, che io sono solo in grado di abbozzare, ma che mi piacerebbe veder sviluppata da chi ha più strumenti di me. La famiglia è il punto finale, l’ultima stazione, il fine corsa. Di che cosa? Delle contraddizioni – economiche, sociali, culturali – che la nostra società non riesce a risolvere. Il lavorare e il prendersi cura; la tutela del congiunto e degli interessi generali; il sentimento di possesso e l’istanza di libertà e autodeterminazione; e così via. Imperativi diversi – giusti o sbagliati, se visti da una prospettiva terza – ma profondamente radicati nel nostro modo di pensare, di essere e di vivere, imperativi tra loro in contrasto più o meno stridente che quando entra nelle mura domestiche è come l’acqua che bolle in pentola a pressione.


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