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Giornata contro violenza sulle donne

La violenza non è un destino: diamo voce a chi si è ribellata

Anziché condividere le foto dei volti emaciati delle donne vittime di violenza, sforziamoci di raccontare come tante donne, con il giusto aiuto sono riuscite a rielaborare la violenza subita, attribuendone la responsabilità a chi ne è stato la causa, e a riscrivere così la propria vita. A liberarsi. A non morire

di Sabina Pignataro

Donne ferite, bruciate, soffocate, accoltellate, morte: questi sono gli strumenti attraverso cui conosciamo il fenomeno della violenza oggi. Sembra che le donne siano sempre soggetti passivi, inermi, delle sprovvedute che non sono riuscite a reagire.

Oggi, 25 novembre, vorrei si ribaltasse questa narrazione. Vorrei che anziché condividere le foto dei volti emaciati ci sforzassimo di raccontare come tante donne, con il giusto aiuto (dove per giusto intendo empatico e competente: elementi ugualmente rilevanti) sono riuscite rielaborare la violenza subita, attribuendone la responsabilità a chi ne è stato la causa, e a riscrivere così la propria vita.

Sono convinta che per incoraggiare le donne a prendere le distanze dagli uomini violenti, piuttosto che dire “denunciate al primo schiaffo” sia più utile portare in evidenza le testimonianze di chi è riuscita a riprendersi la propria dignità. A liberarsi. A non morire.

Giusy, accolta a casa Arché

Prendiamo come esempio la vicenda di Giusy (il nome è di fantasia, ma la storia è vera), una ragazza che è stata accolta un paio di anni fa nella comunità mamma – bambino di Fondazione Archè, a Milano. «Per tutta la mia infanzia ho visto mio padre picchiare mia madre e sono cresciuta in un clima di tensioni e aggressioni», racconta. «Appena sono diventata grande ho provato a sottrarmi a quella famiglia tossica viaggiando per l’Europa come artista di strada. Quando ho conosciuto il padre di mio figlio ho pensato “non può essere peggio di quello che ho vissuto”». E invece lo è stato. «Sono finita in casini più grandi». Lui ha iniziato a picchiarla ancora più forte quando Giusy è rimasta incinta. È stato solo il senso di responsabilità verso questa nuova vita a darmi il coraggio e la forza per chiedere aiuto». Quando viene accolta da Archè Giusy è un uccellino spaventato che stringe a sé un neonato di tre mesi. A Casa Adriana (così si chiama lo spazio) incontra altre 8 nuclei mamma e bambino e il supporto di equipe educativa che risponderà ai beni primari (un tetto, cibo, vestiario), che l’affiancherà nell’affrontare la violenza subita e assistita, ad elaborarne gli esiti traumatici, che l’accompagnerà attraverso un percorso psicologico a creare dei legami, ad uscire dal suo guscio di vittima, a trovare dentro di sè le abilità e capacità necessarie che la avvicineranno ad una autonomia abitativa e lavorativa.

La sua storia mi colpisce per la franchezza con cui pronuncia questa frase: «Non mi era mai capitato di aver qualcuno su cui contare. Oggi la mia vita ha colori diversi».

Non mi era mai capitato di aver qualcuno su cui contare

Giusy, accolta a Casa Arché

Cinque anni prima di chiedere aiuto

In questo momento, lo ha certificato ieri proprio l’Istat, sono circa 26mila le donne che stanno affrontando il loro percorso di uscita dalla violenza con l’aiuto di un Centro antiviolenza – Cav.


Tra queste quelle che hanno denunciato al primo schiaffo sono proprio poche. Anche questo lo dice l’Istat: «La decisione di intraprendere un percorso per uscire dalla violenza sembra arrivare a distanza di anni: per il 41,3% delle donne sono passati più di cinque anni dai primi episodi. Quasi tutte hanno vissuto ogni giorno sul crinale di un baratro, hanno sopportato il crescendo di umiliazioni, le angherie domestiche, le prepotenze pubbliche. Gli schiaffi e i pugni.

Da fuori questi cinque anni sembrano tanti. Quasi troppi. Ma da fuori, appunto, è facile giudicare. «Perché le donne non sono in grado di respingere la violenza, quando la riconoscono. Cosa ci fa credere di poter cambiare, accogliere, domare la minaccia?»: È la domanda che si poneva Concita De Gregorio in un libro del 2008, “Malamore” che sembra scritto oggi. «Tutta questa sofferenza è amore? Non lo è; è un malamore, gramigna che cresce nei vasi dei nostri balconi». Talvolta, però, «Sradicarlo costa più che tenerselo».

Tutta questa sofferenza è amore? Non lo è: è un malamore, gramigna che cresce nei vasi dei nostri balconi. Talvolta, sradicarlo costa più che tenerselo

Concita De Gregorio

Lo sottolineiamo qui, affinché le donne che non reagiscono immediatamente non si sentano sbagliate, sfigate, deboli e vigliacche. No, non lo siete. Riconoscere, arginare e allontanarsi dalla violenza è un percorso in salita, mai lineare, fatto di slanci di coraggio e poi di passi indietro. Specie se per tutta la vita non si ha avuto l’occasione di conoscere, sperimentare e osservare relazioni diverse, libere, rispettose, egualitarie.

Ripensiamo a Giusy: non le è mancato il coraggio. Per molti anni le è mancato l’incontro con una mano che la salvasse dal baratro.

«Il percorso di uscita dalla violenza di donne e minori necessita del sostegno di una molteplicità di soggetti», racconta padre Bettoni, fondatore di Fondazione Arché. «Richiede l’intervento di figure che provengono dai campi del sociale, del sanitario, della giustizia, dell’educazione». Non basta il buon cuore, anche se è già una buona base. Servono figure competenti. «Ma ciò di cui queste donne hanno più bisogno è di essere credute, sostenute, rinforzate, di sentirsi ripetere che i comportamenti di cui sono state vittime sono rubricati come reati, che la responsabilità è sempre di chi agisce violenza, che non sono loro sbagliate, inadeguate, incapaci».

Centinaia le donne che lottano ogni giorno

In un libro del 2020, “Non è un destino” (Donzelli) che sembra più attuale oggi che mai, Lella Palladino, sociologa, fondatrice della Cooperativa sociale EVA, e vicepresidente della fondazione “Una Nessuna Centomila”, ripercorre le storie di molte delle donne con cui è entrata in contatto negli 25 anni di lavoro nei centri antiviolenza.
Tina, Lia, Francesca, ma anche Paola, Lucia sono donne con storie complicate. Ma anche donne con storie comuni. Tutte loro, prima di arrivare a chiedere aiuto ad un centro antiviolenza, sono state isolate, oppure criticate per non aver reagito prima; o per aver reagito troppo in fretta, quando invece chi le era intorno le suggeriva di sopportare e tollerare ancora di più; sono donne che hanno cercato di proteggere i figli; donne che hanno pagato con la vita il tentativo di proteggerli; donne che troppe volte hanno sentito sussurrare: “ma perché non lo ha lasciato prima?». Donne che hanno maledetto ogni singolo giorno il fatto di non avere un soldo per poter andare… via. «È incredibile come più gravi siano state le violenze subite, più forti siano le umiliazioni e le offese, e più generalizzato si riveli il rimprovero per colei che tutto questo lo ha subito», osserva Palladino.

È incredibile come più gravi siano state le violenze subite, più forti siano le umiliazioni e le offese, e più generalizzato si riveli il rimprovero per colei che tutto questo lo ha subito

Lella Palladino

La sorellanza che salva

Eppure, nonostante questo sottofondo malevolo, «è fondamentale ricordare, e farlo attraverso le storie reali, che la violenza non è un destino, che è possibile sempre uscirne e ripartire e che, se è vero che anche la denuncia spesso non è sufficiente per salvarsi, avere a disposizione l’esperienza specialistica, la forza della «sorellanza» e una rete di supporto competente e sinergica può fare la differenza tra la vita e la morte», osserva Palladino.

E’ fondamentale ricordare, e farlo attraverso le storie reali, che la violenza non è un destino.
Se è vero che la denuncia spesso non è sufficiente per salvarsi, avere a disposizione la forza della «sorellanza» e una rete di supporto può fare la differenza tra la vita e la morte

Lella Palladino

Nei CAV italiani operano circa 6mila operatrici: una su due è volontaria. Tutte sono donne. E il dato non è irrilevante. «A garantire il successo dei percorsi – spiega l’esperta -ciò che genera accoglienza è, quasi sempre, il «sentire insieme», il rispecchiamento tra chi parla e chi ascolta, la condivisione di una chiave interpretativa che restituisce alla dimensione dell’appartenenza di genere medesimi vissuti di violenza. Tutto ciò disinnesca le colpevolizzazioni, la disistima di sé, la paralisi emozionale».

«Nei centri antiviolenza della Cooperativa sociale EVA incontriamo tante ragazze e donne giovani, sia come destinatarie dirette di percorsi di fuoriuscita dalla violenza, sia come figlie di donne vittime di violenza – racconta Palladino – e dunque adolescenti e giovani che alla violenza maschile hanno assistito spesso fin da piccole. In Campania accogliamo anche tante giovanissime, poco più che ventenni, che una adolescenza vera e propria non l’hanno mai vissuta: non solo perché hanno già uno o due figli, ma perché hanno alle spalle storie terribili di abuso e maltrattamento».
Secondo i dati Istat, particolarmente critica la situazione delle donne più giovani: sono, infatti, quelle che più frequentemente delle altre si recano al Pronto soccorso (49,3% contro un dato generale pari al 31,0%). 

Particolarmente critica la situazione delle donne più giovani: sono, infatti, quelle che più frequentemente delle altre si recano al Pronto soccorso

Dati Istat, 24.11.2023

Lavoro ed autonomia economica

Ma sostegno ed empatia da sole non bastano. Ciò che non può mancare, conclude Palladino, «nei percorsi di uscita dalla violenza e di empowerment, pensati sempre nel rispetto dei tempi della donna, è un efficace sostegno alla sua autonomia economica, che resta ancora uno dei punti di maggiore vulnerabilità che rende più faticosa per una donna la scelta di sottrarsi al compagno maltrattante. Un problema molto più frequente di quanto si immagini. In Italia il 40% delle donne non ha un proprio conto corrente. Il 30% delle donne che chiede aiuto ai centri antiviolenza subisce anche violenza economica.


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In questo senso è esemplare la testimonianza di Nicoletta Cosentino, di Palermo, che con i suoi due figli è sopravvissuta a una relazione abusante, e oggi accompagna altre donne sullo stesso percorso con un progetto imprenditoriale. Si sono chiamate “Le cuoche combattenti” e producono dolci, conserve e marmellate: su ogni loro vasetto scrivono una frase, un motto che aiuti le altre a essere più consapevoli. Somiglia ai bigliettini dei baci di cioccolato, solo che qui l’amore è amor proprio, amore della propria dignità, amore del proprio valore.

Altre storie di donne italiane, marocchine, irachene, ecuadoregne, russe, ucraine, algerine, senegalese le racconta Letizia Lambertini nel libro 7 giorni” (edizioni Settenove). C’è la storia di Carla che riconquista la sua officina meccanica; di Iqbal che decide di investire sulla sua capacità di panificatrice; di Olga che lascia tutto per ricostruirsi a partire da se stessa; di Fabiña che scommette sulla forza trasformativa dell’amore; di Daba che sconvolge le convenzioni di un piccolo paese di montagna; di Bouchra che trova il modo di dare e di darsi giustizia. E di Queriba, che precipita (letteralmente) dal piano senza prospettiva della sua prigione domestica al basso della libertà di avventurarsi oltre ogni limite.

Altre le abbiamo raccontate qui:

Foto in apertura, di Melina Bonanno, volontaria dello Iom Ascoli Piceno
(Credits: Gomitolorosa4arts 2023)


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