Dl liste d’attesa

Milanese: «Un provvedimento che promuove la dignità dell’anziano»

Il presidente di Confcooperative Sanità promuove il decreto legge approvato ieri dal Consiglio dei ministri e bacchetta la pubblica amministrazione per i bandi che alimentano il fenomeno dei medici "gettonisti". «Ma sul fronte degli anziani non autosufficienti siamo indietro di 20 anni»

di Luigi Alfonso

«Il Dl “liste d’attesa” ci offre l’occasione per offrire un servizio sanitario più a misura del paziente». Giuseppe Milanese, presidente di Confcooperative Sanità, non ha dubbi e promuove il decreto approvato ieri dal Consiglio dei ministri. «So bene che ci sono state e ci saranno delle polemiche, perché in Italia siamo tutti bravi a dire che noi avremmo fatto di meglio. Ma mi hanno insegnato che il meglio è nemico del bene. Tutto è perfettibile, però questo provvedimento è un passo avanti importante, al quale hanno contribuito in tanti. È un pacchetto normativo che aiuta a migliorare l’erogazione dei servizi sanitari e riconosce una corretta attenzione al sostegno della collaborazione con il privato accreditato, in particolare con le cooperative», sottolinea ancora.

Il presidente di Confcooperative Sanità rimarca anche «l’impegno nel voler bloccare il fenomeno dei cosiddetti gettonisti, creato più dalla pubblica amministrazione che dai medici stessi. Se si bandiscono gare relative a questo ambito, è possibile che qualcuno partecipi: possono essere le cooperative oppure le società di capitali. Il problema, però, è chi bandisce quelle gare e non chi vi partecipa. I gettonisti vengono forniti prescindendo da un modello societario specifico, attraverso gare d’appalto che vengono bandite per arruolare personale ospedaliero, con conseguenze fortemente negative non solo per il sistema pubblico ma anche per la sanità privata non profit».

Milanese poi precisa che «questo è un decreto che promuove la dignità dell’anziano e riguarda tutti gli ultra 65enni. In Italia si contano circa tre milioni 800mila anziani non autosufficienti, ma il nostro Paese è arretrato di vent’anni rispetto agli altri Paesi europei. Abbiamo una popolazione con un’età media di 47 anni e una demografia che registra una maggioranza fatta di 50-60enni, è il caso di mettere mano a questa situazione oggettiva».

«Sosteniamo da sempre il principio di sussidiarietà sancito dalla Costituzione, quale fondamento del lavoro complementare delle nostre associate in rapporto al sistema della salute pubblica», prosegue Milanese nella sua analisi del decreto. «Le nostre cooperative si impegnano a sviluppare modelli che integrano il Servizio sanitario nazionale nella risposta ai bisogni delle persone più fragili, fornendo servizi di qualità e non somministrando manodopera, dove l’obiettivo non è l’utile bensì l’erogazione di servizi e la remunerazione dei lavoratori. Su 23.833 imprese attive nel settore della sanità privata in Italia, il 32,2% (pari a 7.669 aziende) è composto da cooperative, con oltre 327mila operatori che rappresentano il 59,8% della forza lavoro del settore. Le cooperative sono l’àncora di salvezza delle aree interne e periferiche, spesso l’unica presenza imprenditoriale privata nella sanità in 382 Comuni delle aree interne. Inoltre, sono le più attive nei servizi domiciliari e semiresidenziali, con 4.861 imprese che rappresentano l’87,5% del totale riferito a tutte le fragilità».

Il decreto legge prende il nome da una delle lacune più macroscopiche della sanità nazionale: quella delle liste d’attesa. «Consideriamo positivamente l’aumento progressivo della percentuale di spesa per l’acquisto di prestazioni sanitarie da soggetti privati accreditati, in quanto migliorano l’efficienza e la tempestività delle cure, a patto però che vengano aggiornate tempestivamente le tariffe. Come positivo è pure il riconoscimento della centralità del dipartimento di salute mentale. Tuttavia, auspichiamo che venga valorizzato il ruolo delle cooperative sanitarie e sociosanitarie a sostegno dei servizi di salute mentale nei territori e nelle comunità. Il problema delle liste d’attesa nasce da tre fenomeni: un concetto di salute che, dopo il Covid, è cambiato: ora i cittadini ha un maggiore desiderio di curarsi. Poi, c’è l’inappropriatezza di molte indagini diagnostiche, basate sul fatto che non c’è una regia che renda appropriata la risposta. Infine, il sistema pubblico deve riorganizzarsi in base alle maggiori esigenze delle persone, senza trascurare il sistema territoriale: senza quest’ultimo, la gente ricorre unicamente all’ospedale e lo intasa».

Il presidente Milanese auspica una regia unica che sia uniforme in tutto il territorio nazionale. Una riflessione interessante, che però a va a cozzare con il Ddl sull’autonomia differenziata delle Regioni. «Per far funzionare la sanità, bisogna rispettare il paradigma delle cinque R: regia unica, regole, ruoli, reti e risorse. La regia unica serve per non avere venti sistemi regionali; da qui l’idea di avere regole omogenee su tutto il territorio nazionale; poi occorre la definizione dei ruoli tra pubblico e privato: il pubblico deve capire se vuole essere affiancato da un privato, profit o non profit, che tenda ovviamente a integrarlo e non a sostituirlo; bisogna costruire le reti territoriali tra professionisti, che oggi sono pagati ma sono in ordine sparso (penso alla farmacia dei servizi o alla Medicina generale); infine, le risorse: quando si parla di sanità non ci si deve riferire ai mattoni, siano essi ospedali o case di comunità, bensì alle risorse umane. Per noi è necessaria una figura sociosanitaria che si può formare nel giro di un anno, senza la quale l’assistenza domiciliare – a partire dalle abitazioni – non avverrà mai».

«L’assistenza domiciliare in Italia fa ancora fatica», sostiene Milanese. «Il Pnrr ci ha dato degli obiettivi ma dobbiamo ancora costruire un processo che consenta di assistere le persone con fragilità e cronicità a partire dalle loro case. Questo è un punto fondamentale su cui ripensare l’intero Sistema sanitario nazionale. Oggi un anziano si reca in ospedale perché non ha nessun’altra possibilità. Un’assistenza domiciliare integrata reale, come c’è negli altri Paesi europei, eviterebbe l’intasamento delle strutture pubbliche. Se vogliamo assistere a casa il 10 per cento degli anziani, occorrono 100mila figure professionali adeguatamente formate, e non parlo di medici, infermieri o fisioterapisti, bensì dell’operatore sociosanitario con formazione complementare, perché i bisogni delle persone non sono solo sanitari. Un altro nodo da sciogliere è l’impiego della telemedicina: un aspetto non banale, se si considera che la maggior parte di questi utenti non ha dimestichezza con le nuove tecnologie».

In certe regioni non si avverte tanto la carenza dei medici quanto la non ottimale organizzazione generale. «Il problema è la costruzione di un sistema territoriale, in cui i medici ci si ritrovino e abbiano poi voglia di lavorarci», conclude Milanese. «Se non si costruisce un sistema che funzioni, il problema non sono certamente i medici che non si trovano».

Per vedere la conferenza stampa del ministro della Salute, Orazio Schillaci, cliccare qui.

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