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Cooperazione & Relazioni internazionali

Per cominciare alcuni pensieri sparsi…

di Giulio Albanese

Anzitutto intendo esprimere la mia gratitudine agli amici della redazione di Vita per l’opportunità che mi hanno offerto nel curare questo “blog” dal titolo più che emblematico: “Africana”. Si tratta di una finestra internettiana che vorrebbe idealmente sfatare certi luoghi comuni nella consapevolezza che il continente africano è un poliforme contenitore di sapienza multisecolare, luogo di passioni, ricchezza culturale e artistica, “mare magnum” di etnie fatte di volti con le loro storie da scoprire. D’altronde, nel linguaggio giornalistico contemporaneo l’Africa rappresenta la metafora delle disgrazie che assillano il nostro povero mondo. In effetti è davvero inquietante quanto sta accadendo nella tormentata regione sudanese del Darfur, come anche in terra somala, soprattutto a Mogadiscio e dintorni. E cosa dire dell’arroganza di un personaggio del calibro di Robert Mugabe? Eppure, per quanto grandi possano essere le disgrazie che assillano le “Afriche” – è meglio usare il plurale, parlando di un continente grande tre volte l’Europa – occorre sforzarsi di andare al di là delle solite percezioni superficiali di certa comunicazione che tende a fare di tutte le erbe un fascio. In questi anni, è bene rammentarlo, si è molto parlato delle possibili modalità per consolidare i processi democratici in Africa, in riferimento all’orgoglio di un continente che, nelle sue molteplici espressioni – sociale, politica, economica e religiosa – avverte il bisogno di voltare decisamente pagina, soprattutto a livello di società civile. E come in una sorta di gioco degli specchi, le risposte opposte alla sfida dello sviluppo sembrano eludere il problema dello “Stato-Nazione”, così com’è stato postulato brillantemente dallo storico inglese Basil Davidson (The Black Man’s Burden: Africa and the Curse of the Nation-State, Knopf, New York 1992), vale a dire una forma istituzionale di imitazione occidentale che si traduce in governi personali e autocratici fondati sul nepotismo e la corruzione esercitati a favore di una o più componenti etniche della popolazione contro le altre.A questo riguardo Davidson, uno dei maggiori africanisti del nostro tempo, stigmatizza le pesanti responsabilità delle ex potenze coloniali nella captazione di élite autoctone che si prestano impunemente al mantenimento di rapporti economici ineguali seppure informali. L’analisi di alcuni scenari infuocati, in cui la conflittualità non ha solo una valenza politico-istituzionale, ma anche militare, mette in luce l’esistenza di circuiti politici legati ad istituzioni, eserciti e milizie private, signori della guerra locali, compagnie multinazionali, finalizzati allo sfruttamento delle risorse naturali presenti sul territorio e ovviamente del tutto indipendenti da qualsiasi forma di consenso o legittimazione popolare. Detto questo, prendendo proprio lo spunto dall’infuocato continente africano dove, mentre scriviamo, si consumano ancora drammi indicibili, viene spontaneo chiedersi fino a che punto il concetto di democrazia, secondo i paradigmi occidentali, sia estendibile ad altre latitudini. Sebbene infatti il numero dei Paesi democratici sia oggi il più alto della Storia, nel mondo persiste ancora una grande varietà di regimi genericamente definibili i quali, con sfumature e camuffamenti diversi, tendono da una parte a ridurre considerevolmente o addirittura a eliminare del tutto il pluralismo politico, privando peraltro le popolazioni dei diritti e delle libertà fondamentali; mentre dall’altra gestiscono l’assegnazione e distribuzione del potere politico con l’uso della forza nei confronti di ogni forma di dissidenza. Bisogna, tuttavia, prendere atto che vi è un dibattito aperto in merito alla possibilità che la democrazia liberale di stampo occidentale sia il modello universale verso cui dovrebbero tendere inesorabilmente tutte le nazioni, indipendentemente dalla loro tradizione storica e culturale. A questo riguardo è provocatoria e al contempo illuminante la posizione di Amartya Sen, premio Nobel nel 1998 per l’economia per i suoi studi sullo stato sociale. In un saggio pubblicato da Mondadori “La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione dell’Occidente” la tesi di fondo è che le obiezioni scettiche “sull’opportunità di proporre la democrazia per popoli che, a quanto si afferma, non la conoscono” e “su ciò che la democrazia può effettivamente realizzare nei Paesi più poveri” presuppongono una concezione “troppo ristretta” e “limitata” della democrazia, identificandola con le “pubbliche votazioni” o il “governo della maggioranza”. Una corretta concezione della democrazia, invece, rimanda per Sen all’ “esercizio della ragione pubblica” e dunque alla “garanzia di un dibattito pubblico libero e di interazioni deliberative nel pensiero e della pratica politica”, alla “salvaguardia della diversità delle dottrine”. In altri termini “La democrazia è un sistema che esige un impegno costante, e non un semplice meccanismo (come il governo della maggioranza), indipendente ed isolato da tutto il resto”. Alla luce di queste tesi, Sen sostiene che per attribuire alla democrazia valore universale non è necessario che si eserciti su di essa un consenso generale. Piuttosto, occorre “stabilire se in ogni parte del mondo gli uomini possano avere ragioni per considerarlo tale”. Se da una parte è vero che Sen si espone al rischio di fornirne una nozione di “democrazia”, eccessivamente ampia e tanto flessibile da includere qualsiasi regime (dalla democrazia diretta al modello Westminster, al dispotismo illuminato), dall’altra occorre fare tesoro dei suoi incitamenti rilanciando il confronto nell’ambito delle sedi internazionali, Nazioni Unite in testa dove elaborare il compromesso, inteso nella sua più nobile accezione etimologica: quella del “cum promettere”, cioè del promettere insieme un impegno di pace per il futuro atteso e sperato dai popoli, soprattutto quelli delle “Afriche”. Viene alla mente, come una sorta di provocazione, “Africa Paradis” (“Paradiso Africa”) del beninese Sylvestre Amoussou presentato nel febbraio del 2007 al Fespaco (Festival Panafricain du Cinéma et de la télévision de Ouagadougou), la biennale del cinema africano svoltasi nella capitale burkinabé. Una visione sicuramente fantapolitica, all’eccesso, ma che comunque ha colto il favore della critica. L’Europa è diventata un continente invivibile, lacerato da guerre, disoccupazione e povertà. Un nuovo Medio Evo in cui i bianchi fanno la coda per ottenere il visto per l’Africa, continente ricco e rigoglioso, nel quale le famiglie vivono immerse nel lusso sfrenato, i figli studiano nelle migliori università e fanno carriera. Ma convincere i funzionari afro non è semplice. C’è chi, tra i bianchi, è disposto a pagare per essere traghettato di nascosto nel nuovo paradiso, dove l’immigrazione è rigidamente controllata. Il lungometraggio, presenta un mondo capovolto in un’esilarante parodia-satira dell’oggi che per certi versi ha il sapore della soap e del fotoromanzo. Sta di fatto che questo mondo alla rovescia di Amoussou lancia a modo suo un messaggio positivo, prefigurando nel “meticciato” il futuro dell’umanità. Una concezione del “villaggio globale”, incentrata sulla fraternità universale, dove dritto e rovescio possano avere pari dignità. Per questo occorre vigilare affinché ognuno, in Africa e nel cosiddetto Primo Mondo, si assuma la propria parte di responsabilità.


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