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Perché ci è necessario il romanzo (2)

di Luca Doninelli

Quello che sta accadendo in Italia e nel mondo fa pensare che le idee e le intenzioni dei diversi protagonisti (capi di stato, uomini politici, operatori economici, flussi migratori ecc.) abbiano un’importanza relativa nel gran calderone degli eventi. Mi sembrano spesso gli attori inconsapevoli di una recita che, se gli attori fossero altri (con altre idee, altri sentimenti ecc.), alla fine rimarrebbe pressappoco la stessa. Quando comincia a formularsi in noi un pensiero come questo, è segno che l’oggetto della riflessione si sta spostando dalla cronaca alla storia. La parola “romanzo” acquista un senso al cospetto della storia. Se oggi l’apparenza è diversa, e il contenuto del romanzo si riduce a una pittura d’ambiente quando non a una storia privata, resta il fatto che anche la più privata e personale delle vicende narrate vive – se romanzo è – di questo confronto vitale con il mistero della storia. Uomini come Hegel, Manzoni e, più tardi, Tolstoj si sono posti in questa prospettiva cercando di procedere oltre le cause dei singoli fatti e di leggere la necessità che li plasma, dandole – se possibile – un nome. Giustamente la “Fenomenologia dello Spirito” di Hegel viene definita “romanzo” dall’autore stesso. Le soluzioni proposte dai tre autori chiedono, oggi, di essere rimeditate. Per Hegel la necessità che guida la storia è immanente alla stessa e si chiama Spirito. Per Manzoni essa è trascendente e si chiama Provvidenza. Per Tolstoj invece il protagonista della storia è il singolo uomo, e a decidermene le sorti è l’unione, la sommatoria delle azioni morali dei singoli, la cui forza può sgretolare anche l’esercito più invincibile e il più geniale dei condottieri. Tutti e tre concordano su un punto: il grande e comunque misterioso disegno della storia (Hegel stesso, nel tentativo di svelarlo, lo svuota) non prescinde mai dalla libertà morale della singola persona e passa attraverso di essa. Al punto che, per Tolstoj, l’atto eroico di un singolo soldato vale quanto le soluzioni strategiche di Napoleone. Ogni uomo è uno, e “uno” è la sua forza ontologica, quale che sia la sua posizione nella gerarchia del mondo. Per tornare a fare della vera narrazione è necessario tornare su questo punto: per usare un termine hegeliano, possiamo chiamarlo “autocoscienza”, con tutto il carico di dramma che questa parola comporta, accettando l’assurdo come compagno di una parte del viaggio (o di tutto il viaggio, chissà) e senza la pretesa di una composizione del dramma. Il romanzo, in altre parole, deve arrampicarsi lungo la montagna del Potere, salire fino in cima, fino ai responsabili di tutto – i padroni del mondo – per scoprire che nemmeno loro sono i veri protagonisti, e poi scollinare dall’altra parte, fino a quel luogo – che è sempre una sorpresa, una “connaissance accidentale” come la chiana Didi-Hubermann – in cui singolare e universale splendono come dentro una sola, drammatica luce.


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