Scuole di cittadinanza
Qui Noale, dove si impara a vivere la comunità
Dal monitoraggio delle acque del fiume alle ninna nanne in lingua madre. La dirigente Francesca Bonazza per educare alla cittadinanza punta non su progetti ad hoc per gli alunni con passaporto non italiano, ma sui percorsi di partecipazione di tutti gli alunni (e delle loro famiglie) alla vita della comunità. Continua il racconto di VITA dentro le scuole d'Italia, dove lo Ius Scholae è già realtà
«La questione non è in primo luogo quella di rendere cittadini i bambini stranieri o di combattere la dispersione. Si deve costruire una comunità. Lavoriamo con le famiglie e sul territorio per sviluppare la consapevolezza di appartenere a una comunità, di cui fanno parte tutti»: Francesca Bonazza, dirigente scolastico dell’Istituto Elisabetta “Betty” Pierazzo di Noale, nella città metropolitana di Venezia, spiega così la sua idea di scuola che educa alla cittadinanza. L’istituto comprende una scuola dell’infanzia, molto frequentata in quanto unica statale della zona, quattro scuole primarie (una per ogni frazione del comune) e una secondaria di primo grado. Alla scuola dell’infanzia gli alunni senza cittadinanza italiana sono il 20%. Alla primaria sono invece il 13% e il 18% nella secondaria di primo grado.
Il focus, sottolinea la dirigente, deve essere sulla partecipazione di ogni alunno e sulla formazione della responsabilità collettiva, sulla consapevolezza di essere cittadini, più che su lavori ad hoc centrati unicamente sulla cittadinanza per bambini non italiani. «Cerchiamo sempre di non partire dai problemi e da ciò che manca, ma da ciò che c’è. Prima evidenziamo i punti di forza». Questo approccio emerge quando, raccontando di un progetto di citizen science realizzato in collaborazione con l’Unione Europea, ricorda che al momento del confronto con gli studenti e gli insegnanti degli altri Stati a presentare l’esposizione del lavoro fatto a Noale e dei dati raccolti è stata «una bambina originaria del Ghana, con una disabilità. Era l’alunna che padroneggiava meglio la lingua inglese e nessuno di noi ha ritenuto rilevante che non fosse nata in Italia: in quel momento tutti eravamo solo cittadini europei».
Al termine di un progetto europeo di citizen science a presentare l’esposizione del lavoro fatto a Noale è stata una bambina originaria del Ghana, con una disabilità. Era l’alunna che padroneggiava meglio l’inglese e nessuno ha ritenuto rilevante che non fosse nata in Italia
Francesca Noale, dirigente
Il progetto in questione ha evidenziato come la consapevolezza di essere parte di una comunità sia anche legata al rapporto con il territorio. Gli studenti hanno periodicamente campionato le acque del piccolo fiume che attraversa il comune, per permettere a docenti universitari di avere più dati per le loro analisi. I bambini hanno così imparato a riconoscere che tipo di inquinanti esistono e ad apprezzare il valore della natura. Per esempio si sono resi conto che il tasso di inquinamento del fiume era minore a valle e approfondendo la questione con lo studio è emerso che le acque venivano depurate dalla vegetazione, in un processo di fitodepurazione.
Plurilinguismo come ricchezza
Le diverse provenienze e matrici linguistiche possono essere fonte di ricchezza per tutti, spiega la dirigente: «Imparare un’altra lingua significa apprendere nuove strutture grammaticali e sintattiche. Condividere tra compagni il funzionamento della propria lingua madre e magari le difficoltà nell’apprendere l’italiano aiuta tutti a riflettere su come è costruita una lingua, si diventa più consapevoli delle strutture grammaticali». Si crea così un dialogo in cui si realizza l’esistenza di culture, lingue e storie diverse da ciò a cui si è abituati.
All’asilo le mamme dei bambini si alternano nel raccontare storie, cantare ninna nanne e canzoni tipiche, anche nelle proprie lingue madri. Anche se non capiscono le parole, i bimbi amano la musicalità della lingua, ne sentono la dolcezza. Le sensazioni sono le stesse, al di là della lingua e così si rompe l’estraneità
A Noale l’incontro con culture e lingue diverse è promosso fin dalla scuola dell’infanzia. All’asilo infatti le mamme dei bambini si alternano nel raccontare storie, cantare ninna nanne e canzoni tipiche, anche nelle proprie lingue madri: «Anche se non capiscono le parole, i bimbi amano la musicalità della lingua, ne sentono la dolcezza. Le percezioni sono le stesse, al di là della lingua e così si rompe la sensazione di estraneità». Lo scambio culturale continua nei gradi scolastici successivi nel “caffè letterario”, dove i ragazzi si confrontano sui libri letti, consigliando anche ai compagni opere tradizionali dei propri Paesi di origine. «Vogliamo reintrodurre l’idea che leggere sia un momento di benessere e che i contenuti di libri o giornali creano la coscienza civica».
Comunità è collaborazione
Quella di Noale è una scuola aperta al territorio. «Cerchiamo di costruire delle “reti” di persone che collaborino tra loro. Abbiamo famiglie che dopo anni in Italia sono molto inserite nel territorio, con alunni molto motivati. A scuola chiediamo a loro di fare da tutor per i nuovi arrivati, con cui condividono la lingua madre. Questo aiuta molto il neo-arrivato a sentirsi meno solo, gli permette di interagire con un pari e non solo con adulti», spiega la preside Bonazza. Questa collaborazione “storica” si era rivelata funzionante soprattutto tra le famiglie cinesi ma dopo lo scoppio della guerra in Ucraina è stato urgente implementare questa rete di aiuto e tutoraggio: «Ora vorremmo ampliare questo modello e renderlo più strutturato».
Abbiamo famiglie che dopo anni in Italia sono molto inserite nel territorio, con alunni molto motivati. A scuola chiediamo a loro di fare da tutor per i nuovi arrivati, con cui condividono la lingua madre.
Con il coinvolgimento dei servizi sociali e delle realtà di volontariato del territorio, attorno alla scuola si è sviluppata anche una “rete minori”: le famiglie disponibili aiutano quelle che si trovano in situazioni di difficoltà, ad esempio mettendo a disposizione spazi e momenti della giornata per i minori con disabilità o sotto la tutela degli assistenti sociali.
Un cittadino è chi ha curato ogni aspetto di sé
Partire dai punti di forza e sovvertire gli schemi è alla base anche del progetto del “Bellismo”. In seguito ad episodi di prevaricazione tra ragazzi degli ultimi anni delle elementari, la scuola ha pensato a come prevenire ciò che sarebbe potuto sfociare in veri atti di bullismo. «Spesso questi episodi sono affrontati con un bisogno normativo e punitivo, noi abbiamo cercato di mettere sotto i riflettori le nostre parti migliori. Le cose sbagliate sono contagiose, ma anche ciò che funziona lo è», riflette la dirigente.
Gli insegnanti di tutte le scuole hanno spinto gli alunni a parlare delle proprie emozioni, a capire cosa provavano e ad imparare a condividerlo. «Siamo tutti portatori di emozioni e condividerle spesso aiuta a gestirle meglio. Se ci si chiude quando si prova ansia si diventa vittime di sé, invece si può cercare aiuto. Quando i bambini sono arrabbiati sentono il mondo contro e possono diventare aggressivi, invece possiamo cercare di farli stare bene se comprendiamo cosa provano». Secondo Francesca Bonazza, riconoscere la propria interiorità è un aspetto cardine della crescita come individui e come cittadini.
Con i ragazzi più grandi si è lavorato anche sulle interazioni di gruppo e si è dialogato sull’uso degli smartphone. Alcuni degli studenti anche delle quarte elementari, durante i colloqui con esperti e psicologi, hanno confessato di aver ricevuto dei messaggi negativi e anche di averli a loro volta inviati ad altri. Questo fatto ha stupito molto i genitori, che si sono resi conto della necessità di un approccio comune. I ragazzi allora, guidati dai docenti, hanno provato ad immedesimarsi con i genitori, con cui hanno poi condotto una tavola rotonda. La consapevolezza di essere parte di una comunità e di poter trovare soluzioni insieme ha portato ad un “Patto sul digitale” sottoscritto dai genitori (spesso su spinta dei figli). In aggiunta, padri e madri sono impegnati a dare il buon esempio, non abusando loro stessi del cellulare.
Un buon cittadino è una persona che ha curato tutte le sue parti. Credere nella scuola significa credere la scuola che possa agire in questa direzione
Qui a Noale insomma si vive la scuola come luogo di costruzione dell’identità e di cittadinanza consapevole, «grazie al rispetto dell’interiorità mia e degli altri. Una persona che ha curato tutte le sue parti è un buon cittadino. Credere nella scuola significa credere la scuola che possa agire in questa direzione. Tutti dovrebbero farlo, altrimenti in cosa dovremmo credere?».
Questo articolo fa parte della serie “Scuole di cittadinanza”. Leggi anche:
Il Manifesto del Terzo settore e della società civile per lo Ius Scholae;
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Le foto che accompagnano l’articolo sono dell’intervistata
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